martedì 6 aprile 2010

«Siamo meno diversi da Singapore di quanto speravamo»

Domani esce in italiano l'ultimo saggio urbanistico di Rem Koolhaas, titolo bellissimo (Singapore songlines / Ritratto di una metropoli Potemkim, o trent’anni di tabula rasa).
La Stampa ne da un breve estratto oggi in cultura; scopro che RK ha vissuto a Singapore negli anni '50, e che suo padre era uno sceneggiatore.


"Ho compiuto i miei otto anni nel porto di Singapore. Non siamo scesi a terra, ma ricordo l’odore - dolcezza e marciume, entrambi che prendevano alle narici.
L’anno scorso ci sono andato di nuovo. L’odore non c’era più. In effetti, Singapore era sparita, raschiata via, ricostruita. Al suo posto c’era una città tutta nuova.
Praticamente tutta Singapore ha meno di trent’anni; la città rappresenta la produzione ideologica degli ultimi tre decenni nella sua forma pura, incontaminata da residui contestuali sopravvissuti. È guidata da un regime che ha escluso l’accidente e la casualità; anche la sua natura è interamente rifatta. È pura intenzione; se c’è caos, è caos ideato; se è brutta, è di una bruttezza progettata; se è assurda, è di una assurdità voluta. Singapore rappresenta un caso unico di ecologia del contemporaneo."

(...)

"Singapore è incredibilmente «occidentale» per essere una città asiatica; è la vittima apparente di un processo incontrollato di modernizzazione. La tentazione è, in un ultimo, educato, piccolo spasmo di colonialismo, di lasciare che sia uno di quegli enigmi destinati a restare tali, semplicemente perché «loro» sono asiatici o cinesi.

Questa percezione è frutto di un travisamento eurocentrico. L’«occidentale» non è più nostro dominio esclusivo. Fatta eccezione forse per le regioni delle sue origini, rappresenta ora una condizione di aspirazione universale. Non è più qualcosa a cui «noi» abbiamo dato il largo, non è più qualcosa le cui conseguenze abbiamo pertanto il diritto di deplorare; è un processo che si autoamministra, e che non abbiamo il diritto di negare - nel nome di sentimentalismi vari - a quegli «altri» che da lungo tempo se ne sono appropriati. Al massimo, siamo come genitori defunti che deplorano lo scempio fatto dai propri figli della loro eredità." (Rem Koohlaas)

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