mercoledì 7 aprile 2010

Io sono l'amore/rece

Regista che io non conosco per nulla, Luca Guadagnino. Storia ambiziosa e complessa anomala per un film italiano, un ritratto di famiglia di altissima borghesia industriale (ramo tessile, scene anche in fabbrica), inizia con questo primo movimento intenso a Milano, nella casa che da sola regge tutto il film, Villa Necchi Campiglio di Piero Portaluppi, una casa razionalista (oddio, casa, immaginate un intero palazzo con giardino in zona magenta) protagonista a tutti gli effetti, di cui si esplorano con intenzione gli ambienti di rappresentanza e quelli del retro, e le cucine, e le scale, e il guardaroba, i mobili (ucciderei per quei mobili di radica lucida anni trenta/quaranta a ribaltina con i bordi stondati...), il bagno, il cortile, le porte e come si aprono e chiudono e per chi.

Il modo in cui la casa è ritratta è parte importante del fascino del film, io non conosco abbastanza Visconti ma credo ci sia un qualcosa di Visconti qui (gattopardo?) ma citato bene, con intenzione ma senza strafare.

Primo movimento quindi con la cena in casa, famiglia riunita per il compleanno del patriarca che sta per morire e annuncerà i suoi eredi (senza sorprese, ma con qualche tensione). Quindi la famiglia e i suoi percorsi interni, la tavola e le sue regole, la cucina, la servitù, la conversazione, la luce. Ruoli ben definiti a tavola, qui il nonno e la nonna, là la quasi fidanzata del primogenito, qui la nipote preferita, i baci di mamma.

Dura una mezzora, il primo movimento: capisci che questa cena è una rappresentazione lenta e cercata, una metafora spaziale e gastronomica (anche il cibo ha un ruolo chiave nel film, quanto la casa) del momento di perfetto equilibrio sull'orlo del disfacimento: irromperà qualcosa e tu lo sai da come si piegano le labbra gonfiate comem il faut, o da come si sospendono certe conversazioni. E infatti qualcosa irrompe, e la storia si solleva, esce dalla casa, trova una sua via nel concentrarsi sulla figura di Emma, la moglie russa del protagonista, e basta la pianto qui, non faccio lo spoiler.

Lei è Tilda Swinton, in questo film all'apice, bellissima, intensa, vestita da perfetta sciura di Corso Magenta ma con occhi affamati, elegante allo spasimo (i vestiti di lei come la casa, come il cibo, hanno un ruolo notevole e infatti nel momento di rottura i vestiti cambiano, via le scarpe, disfare il guardaroba con furia, infilarsi una felpa brutta e anonima), capace di svelarsi e raccontarsi e costruirsi e tradirsi recitando in gesti bruschi, nella pelle arrossata, bravissima bellissima perfetta nel ruolo volendo scontato di femmina trattenuta che poi esplode, si prestava a tutti i clichè del caso e invece no.

Appena uscita dal Cine Centrale, in un pomeriggio ancora freddo, ne ero un po' delusa perchè dopo il primo movimento pregustavo già quel saporino di ottima cosa che poi il film non riesce ad essere del tutto, ma ripensandoci è un gran film.

Italiano, milanesissimo nei colori, nelle pose, nelle facce, ma finalmente fuori dalle storie piccine del tinello, qui la storia è da tragedia greca; poi la riuscita non è impeccabile, ma mi piace la sfida, un po' alla Portaluppi.

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