giovedì 30 settembre 2010

Buster Keaton e Ali Agca



Cattelan sì o Cattelan no?
Ho letto la Aspesi caustica verso di lui la scorsa settimana su Repubblica (non trovo l'articolo on line), e ancora domenica scorsa il concetto è stato ribadito da Mina su La Stampa addirittura con il titolo "Che barba che noia".

Io so poco di arte, addirittura mi piace l'ago di Piazzale Cadorna e in generale tutto ciò che rende un paesaggio, un muro, una persona inusuale, magari anche sconcertante.
E ovviamente mi piace anche Cattelan, che incontrai la prima volta con lo scoiattolino suicida a Rivoli. Di Cattelan credo che si possa dire molto ma noioso e prevedibile proprio no.
Forse furbo, ma questa presunta furbizia commerciale lo accomuna a schiere di artisti del passato, di cui poi non quella ci è rimasta ma lo sguardo sul loro tempo. E se anche fosse un furbo, che importa? Non è meglio guardare le sue opere senza pensare a quanto costano e a quanto ci guadagna lui (e i suoi galleristi), ma solo a cosa ci dicono?
Cattelan è "coevo al secol nostro", usa il linguaggio di fiction, pubblicità e visual merchandising per prenderci lo sguardo e trascinarci nelle sue angosce. Questo non è originale, da Wharol in poi, ma è solo il linguaggio, non la sostanza.
Usa la tecnica dei bambini, strillo per avere la tua attenzione, la sostanza è che voglio, vogliamo, sicurezza e amore. E no, non ce n'è. Non ce n'è proprio. Forget sicurezza e amore. Vaffanculo. Cattivi. Pedalo via con il mio triciclo prima che mi appendiate a un albero, o mi inchiodiate a un banco.


Il pezzo di Mina lo trascrivo qui sotto.
E poi ci copio anche un brano dal testo di Francesco Bonami sull'arte contemporanea, "Lo potevo fare anch'io", che ho ripreso ieri sera anche se crollavo di stanchezza.

"Troppe emozioni. Troppe. Finiranno per confondermi. Appena terminato il brivido etico per un giallo immobiliare capace di far straparlare con gli occhi fuori dalla testa tutti, giù giù fino ai Caraibi, sono alle prese con lo stupore estetico di un marmoreo dito medio, puntato verso il cielo sovrastante la milanese Piazza Cordusio, da non confondere, come diceva lui, con il mio amico Coruzzi. Insufficientemente interessata ai contesti, sprezzante delle didascalie e sorda alle spiegazioni socio-politico-paraculistiche mi affido, per i giudizi che tengo stretti come segreti, all’inaffidabile e incolto istinto.

La fotografia dell’imponente scultura di Cattelan mi evoca il desiderio di un immediato connubio con la maxi-cacca in travertino piazzata davanti alla biennale di scultura di Carrara. Sono sicura che, se McCarthy avesse potuto consultarsi preventivamente con il maestro veneto, avrebbero insieme concordato qualche soluzione di combinazione spaziale e cromatica ad effetto simbolico accrescitivo, chissà. Le dimensioni mastodontiche di entrambe le opere in questione garantiscono il mantenimento di proporzioni corrette in un eventuale futuro incastro. Ebbene sì, siamo ancora qui a parlare della ritrita funzione provocatoria e dissacratrice dell’arte.

Quell’arte che, invece di straripare di libertà, si inginocchia, povera, pietosa, implorante, conformista, permalosa, presuntuosa e utilitaristica, ai suoi strumentali obblighi polemici o propagandistici. Che barba, che noia. Non c’è nessuna urgenza di simboleggiare alcunché di contingente o peggio di già passato. Tutti sanno già tutto o perché l’hanno imparato o perché l’hanno creato o perché l’hanno subito. Il più bravo a dire vaffa resta Grillo che non usa ammiccamenti o interposizioni, ma va giù piatto. Il bisogno di oggi dovrebbe essere quello di raccontare e farsi raccontare il futuro da persone oneste e disinteressate. Se non sarà possibile, continuiamo pure con medioni ritti ed escrementoni. Nessuno mi toglie dalla testa che Cattelan, che credo sia un «fine umorista», se la stia ridendo come un pazzo dietro un angolo, alla faccia nostra. Io convocherei Christo per uno sbarazzo elegante ed artistico degli ingombri descritti. Imballaggio accurato in cui lui è maestro, DHL, destinazione sconosciuta, ma perfettamente remota. In caso, non bisognerebbe dimenticarsi di Ago, Filo e Nodo di piazza Cadorna. Grazie." (Mina su La Stampa di domenica 26 settembre 2010)


"Oggi nell'Olimpo degli artisti più odiati Cattelan ha preso il posto di Manzoni, non Alessandro, quello dei Promessi Sposi, ma Piero, quello della Merda d'Artista.
I critici delle famiglie degli sgarbini e dei daveriotti sostengono che le opere di Cattelan sono sonore prese in giro, non opere d'arte. Ma è troppo presto per decidere, la giuria della storia non ha ancora pronunciato alcun giudizio. Sicuramente questo Giamburrasca della contemporaneità ha sovvertito le regole del gioco dell'arte facendo sì che molti seguissero la sua strada.

Certo non può vantare un pedigree classico.
E' cresciuto in una famiglia malestante, ha fatto il becchino all'obitorio di un ospedale. Poteva uscirne fuori un terrorista, un serial killer, un pedofilo, uno psicanalista da prima serata. Da una Padova dove si mangiava pane e P38 è venuto fuori semplicemente un probabile artista, uno che sembra il frutto di un esperimento genetico dove hanno frullato il Dna di Buster Keaton con quello di Ali Agca.
(...)
Fa scandalo giocando sulla repressione della paura collettiva, compresa la sua.
Come i grandi artisti del passato, il nostro maestro di Padova parla della vita e della morte, della storia, della religione e del sesso, dell'anima, ma lo fa con gli strumenti del presente.
Cattelan afferra la parodia che ogni tragedia nasconde, come la stella delle Brigate Rosse trasformata in neon, cometa natalizia, simbolo di un'epoca dove pastori e magi non hanno lasciato doni ma una scia di sangue. A Milano ha impiccato i bambini, e tutti hanno gridato allo scandalo. Qualche giorno dopo in Iran i ragazzini li hanno impiccati davvero, condannati a morte perchè omosessuali.
(...)
Ci ha riportati in serie A.
Forse non ha fatto meglio dei suoi maestri, ma ha capito meglio di loro il mondo e la società in cui sta viaggiando. E' partito senza biglietto, oggi è in prima classe sul Mondostar. Domani chissà.
Ma all'obitorio, possiamo stare sicuri, per il momento non ci ritornerà.
(Francesco Bonami, "Il complesso e l'estasi" ne Lo potevo fare anch'io, Mondadori 2007)

martedì 28 settembre 2010

Il paese reale


Una storia da non dimenticare, mentre le prime pagine sono piene di case a Montecarlo vittimismi di Berlusconi e le sfilate a Milano e il processo breve e le elezioni.
Trascrivo le parole di Marco Imarisio dal Corriere di ieri.

È passata una settimana da quando è successo, e poco tempo dalla soluzione di un delitto che sembra complicato solo a parole. Ma a Napoli c’è sempre una comunanza di destini, una circolarità che lega vicende umane distanti tra loro. Nulla è mai chiuso, nulla si chiude per sempre. Teresa Buonocore muore perché due anni fa aveva denunciato il vicino di casa. Si fidava di quella famiglia, i Perillo, gente che aveva studiato, geometri, medici e dottori. Poi aveva scoperto che sua figlia aveva subito abusi sessuali, consumati sul terrazzino dove ogni tanto i «signori» la invitavano a prendere il caffè e guardare i caseggiati di Portici dall’alto. Aveva denunciato. Aveva fatto di più, si era costituita parte civile, accettando di venire allo scoperto, di metterci la faccia. Lo scorso 9 giugno il vicino di casa era stato condannato a 15 anni di reclusione. Oggi sarebbe scattato il pagamento della provvisionale, quei 50.000 euro che il Tribunale aveva valutato cifra congrua a risarcire il danno morale e fisico subito dalla sua bambina.

L’hanno ammazzata prima, invece. E poco importa, adesso, se l’ordine sia arrivato dal carcere o dai familiari dell’uomo condannato per abusi sessuali, se il movente sia la vendetta oppure i soldi. Quattro colpi di pistola. Tre al torace, uno in faccia, come nei film. A sparare sono stati due amici dei Perillo, due ragazzi di 26 e 21 anni. Il più grande, Alberto Amendola, fa il tatuatore. Il secondo, Giuseppe Avolio, lavorava in una pescheria, viveva con la mamma, Flora Scognamiglio, forse vagheggiava di un padre mai conosciuto. Aveva due anni, quando glielo uccisero, agguato di camorra, regolamento di conti tra clan.

Ognuno è il terrone di qualcun altro


Da Verbanianews di ieri:


I frontalieri? "Ratti invasori"

Campagna pubblicitaria choc in Ticino. Manifesti e sito internet con tre topastri che rappresentano i pericoli per il "formaggio" del Cantone. Nel mirino i frontalieri, gli immigrati senza lavoro che delinquono e lo scudo fiscale di Tremonti.

VERBANIA - Non sappiamo se esistano verbanesi di nome Fabrizio che fanno il piastrellista in Svizzera, ma se esistono da oggi saranno oggetto di scherno e battute oltreconfine. Da oggi è infatti partita a Locarno e nel Canton Ticino una campagna pubblicitaria, che ha anche un sito internet: www.balairatt.ch che disegna i frontalieri italiani come ratti pronti a mangiarsi il "formaggio" (nel senso non di emmenthal ma di "grana") del Cantone (il prototipo viene descritto come Fabrizio, piastrellista di Verbania). I loro soci roditori nel manifesto sono gli immigrati senza lavoro e domicilio (il rumeno Bogdan) che vengono ritratti con mascherina da ladro e canotta Ue e il fisco italiano (leggasi Scudo Tremonti come lascia intendere il nome Guido assegnato a un avvocato lombardo dalle sembianze di pantegana).

Non si sa chi abbia commissionato la campagna choc. Il curatore Michel Ferrise, direttore della Ferrise Comunicazione di Muralto, in un'intervista a tio.ch si trincera dietro il segreto professionale. Ma annuncia che la campagna proseguirà. Anche se spiega il problema non sono i 45mila frontalieri italiani, ma l'assenza di salari minini che penalizzano i lavoratori elvetici rispetto alla concorrenza italiana.

lunedì 27 settembre 2010

Ultrà


"Sui tombini delle fogne
come tanti scudi antichi
ci scrivete ancora SPQR
ma guardatevi, a dottori
siete molli come fichi..."
(Alberto Fortis, "A voi Romani", 1979)

"Che la capitale non sia la sua passione è noto: Umberto Bossi ha fatto di "Roma ladrona" lo slogan della Lega forse ancor più di "Padania libera". E il Senatùr lo ha ribadito ieri sera sciogliendo l’acronimo Spqr in «sono porci questi romani». (Umberto Bossi, Ministro di non mi ricordo bene cosa, da La Stampa, 27 settembre 2010)

"I politici? Sono tutti morti. Pensavo solo ai soldi. Se togli i soldi alla politica, questi sono finiti. Perché non hanno idee, non hanno progetti, non hanno una visione della società. E poi sono vecchi. Non ci capiscono nulla. La politica dovrebbe essere in mano ai trentenni: loro hanno capacità ed energie. Basta con gente che siede in parlamento da mezzo secolo. Sono dei morti, sono insostenibili dal paese. Chiedono sacrifici al paese e poi loro vanno in pensione dopo 2 anni mezzo. E i giovani? Gli si chiede di versare contributi per 40 anni. Andranno in pensione, forse, tra a 70 anni. Con quale faccia i politici sanno chiedere questi sacrifici? Li facciano loro. Si facciano da parte”. (Beppe Grillo, intervista ad Anno Zero, 23 settembre 2010)

"Ormai una parte del paese, ed è quella di maggioranza, vuole sentire rappresentato a tono solo e soltanto il proprio tifo, e in particolare il nero nulla che si annida in ogni stato d’animo fazioso, la noia esistenziale e il profondo schifo che suscitano gli altri in chi si senta attaccato nella propria identità e dignità, qualunque cosa queste due parole significhino per il cittadino Joe, per il campione del rancore sociale e politico che ormai occupa la scena senza rivali." (Giuliano Ferrara, Il Foglio, 27 settembre 2010)

giovedì 23 settembre 2010

Where is my vote?



Vedo ora sul Post -bellissimi e urlanti- i manifesti della mostra che la School of Visual Arts di NYC dedica al movimento iraniano.

Il presidente è nudo



Si attendono scottanti dichiarazioni sulle funzioni corporali del Presidente.
Si mormora che addirittura la sera gli puzzino un po' le ascelle.

Miserabile, o benestante



"Pensare solo al tuo benessere fa di te un miserabile, o un benestante."

Renato Zero intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere ieri.

Pay me my money back

In termini di soldi, e specialmente di soldi guadagnati più ancora che vinti ereditati o arrivati per caso, chissà perchè si tende sempre a lamentarsi di non averne abbastanza; cioè a me capita di sentire molte lamentele, e raramente un po' di oggettività. Ma mai le cifre, eh, che non sta bene.

Poi il dare una misura all'"abbastanza" è difficile quando si guarda nelle proprie tasche, e fin troppo facile quando si guarda in quelle altrui.
Quindi la scorsa settimana non ho avuto voglia di commentare l'uscita di Sergio Marchionne sulla sua retribuzione, e su quanto sia o non sia meritata. L'ho trovata quasi sensata, anzi: se l'uomo è criticabile, lo sia per le sue azioni e non per la misura in cui sono compensate.

Però a leggere oggi della liquidazione di Alessandro Profumo, ecco, sì, un pensiero l'ho fatto (e non solo io).

Mi sa che l'ha fatto anche Marchionne.

mercoledì 22 settembre 2010

Weather Report


Oggi su La Stampa di carta le previsioni del tempo si chiudono così:

In cielo si raccoglie il vento,
Il vento purpureo di domani
E di nuovo l'amore,
Di nuovo da tempo immemorabile
Da lontano impedisce la morte.


(Jan Skàcel)

martedì 21 settembre 2010

Fotografare le persone


Ci vuole un talento speciale per fotografare le persone, non è mica facile cogliere il momento, la storia, e farli coincidere con una narrazione precisa. E spesso la qualità di una foto la puoi capire nel suo rimanere nel tempo. Il Corriere.it pubblica oggi una selezione di ritratti di Gianni Giansanti, tra cui questo qui sopra di Silvio Berlusconi, 1984, prima.

Spero di riuscire a vedere la mostra che c'è a Milano, finisce il 14 novembre.

La notizia è che Giovanardi va al cinema



Le adozioni ai gay?
Nei Paesi in cui sono consentite hanno fatto "esplodere la compravendita di bambini e bambine".


Il sottosegretario alla Pres. del Cons. con delega alla famiglia Giovanardi, l'altro ieri.
Toh, non lo facevo un fan di Brüno:
"Come ha avuto suo figlio?"
"L'ho scambiato"
"E con cooooooosaaa????"
"Con un i-pod".
"Non un i-pod qualunque, uno edizione limitata, rosso, hai presente?".

lunedì 20 settembre 2010

Trentacinque anni


Gironzolavo in libreria venerdì, e mi sono imbattuta in un libro che in copertina aveva un fossile di dinosauro, per titolo aveva un riferimento a una delle mie passioni, e pure una frase di Stephen King che lo accreditava tra i libri da leggere.

Allora -anche perchè avevo male ai piedi- l'ho preso e mi sono accucciata in un angolo tranquillo e l'ho sfogliato, e contro ogni previsione non mi ha attratto più di tanto nonostante la grafica che ripropone in qualche modo le relazioni testo/ipertesto di Douglas Coupland (cioè l'annotare a bordo pagina approfondimenti anche visuali più o meno diretti con il testo). (Solo come noticina di visual marketing, l'ho mollato perchè mi sembrava molto più Coelho che Coupland).

In ogni caso, mi ha regalato questa considerazione:
"Sono triste perchè sto invecchiando e ancora non sono felice".
Quanti danni ci fa il concetto di felicità come status permanente da acquisire e possedere prima che qualcuno dallo specchio possa indicarci come fallimento che cammina?
La felicità come bene immobile, acquisizione necessaria.

Poi sabato su Repubblica c'era un'intervista a Woody Allen, sul nuovo film.

-Che cosa ne pensa della vecchiaia?
-Sono decisamente contrario alla vecchiaia. Penso che non la si debba raccomandare a nessuno. Non si acquisisce maggiore saggezza con il passare degli anni.
L'unica cosa che accade davvero è che il tuo corpo se ne va in pezzi.
Certo, cominci a capire la vita e ad accettare le cose.

Ma scambieresti tutto quello che hai pur di tornare ad avere trentacinque anni.


Ecco, la vecchiaia è un bene immobile.
La felicità no.

I don't like Mondays



Quando il caos prevale, vado sempre a farmi risistemare chez Luoghi comuni al contrario.

(La foto è mia, il cortile di Maria. Integrazione del rifiuto.)

domenica 19 settembre 2010

Il limite della retorica


"Chi ha detto che la penna ferisce piu' della spada non si e' mai trovato di fronte un'arma automatica." Gen. Douglas McArthur

(La foto è di Stefano Mattia, immagini dentro storie dentro immagini).

giovedì 16 settembre 2010

"Col solo cuore che mi è stato dato"



Nazione Indiana oggi pubblica questo, e questa foto, e con il file dell'autrice Anna Lamberti-Bocconi che legge le sue stesse parole.
Come si fa a non piangere?


CANTO DI UNA RAGAZZA FASCISTA DEI MIEI TEMPI
di Anna Lamberti Bocconi

Bella ragazza, andavo male a scuola
son fuori tempo, sono già partita,
mio padre un avvocato anni Sessanta
se fossi viva sarei non so cosa
bruciavo come grano sulla brace
non riconosco niente del 2000
non ho strumenti, straccio la partita,
la batteria rullata giù in cantina
ricordo il giorno della bocciatura
ci ho fatto un sole, un buco con il pugno.
Mio padre seduttivo a labbra molli
mia madre insoddisfatta che fumava
la cameriera che parlava in sardo
quelle lenzuola nere viste un giorno
regalo di un’amica di mio padre
mia madre che inghiottiva umiliazione.
Quella donna morì improvvisamente
un giorno prima c’era poi non c’era
vedemmo il necrologio sul Corriere
come un enigma la sua parure nera
mio padre sempre uguale tenne il foglio
non disse nulla, perse la sua amante
e le lenzuola tornarono amare.
Mio padre intossicato di spumante,
la scuola che faceva solo rabbia
la voglia di riscatto e quel latino
rompicoglioni sopra tutti i muri.
Conobbi il movimento a sedici anni
che mi toccavo con le lunghe dita
Giovanni era il più bello del liceo
in primavera aveva già la moto
non la patente, ma se ne fregava
conosceva dei dritti quarantenni
parlava di valori e di Ezra Pound
un giorno mi invitò alle sue riunioni
lo scantinato torrido pulsava
mi videro e tirarono l’uccello
Giovanni li schiantò con uno sguardo
alzò solo una mano e disse “Mai”.
“In culo”, disse “attenti”, e disse “Mai”.
Compresi che era l’uomo e che ero sua
io maschia con i miei capelli neri
che molti mi dicevano aggressiva
gli giurai fedeltà fin che ero viva
io ribelle a spaccare batterie
io scalmanata a urlare alla partita
mi donai in quella sera del liceo
all’uomo cavaliere della luna
al pallido fascista in accensione.
Da allora anch’io guidai la sua coupé
mi insegnò là di dietro all’Idroscalo
sgommavo a fare fuori quell’asfalto
schiacciato come un servo sotto i piedi.
Ma più che altro c’era solo sete
e mi premeva quando mi baciava
la lingua era bollente, il labbro duro,
e poi bagnato e poi dimenticavo.
“Amor che a nullo amato amar perdona”
l’unica cosa che ho imparato a scuola
l’ho seguito leale ovunque andasse
si fidava di me più che degli altri
non mi fregava niente dei borghesi
coi polsi rotti verso l’assoluto
Il Settimo Sigillo era una guida
e le riunioni con i picchiatori
per l’idea, per la morte, per la storia
era rivoluzione che pulsava.
Mia madre spenta che faceva pena
non sopportavo più di andare a casa
Giovanni mi propose la sua stanza
mio padre freddo disse “Bene, vai”.
Ma il gioco cominciava a farsi duro
i camerati uccisi e gli altri pure
e Ramelli, e Mantakas laggiù a Roma
come fiori di sangue sulle strade.
Venne il giorno di uscire dalle righe
decisamente, anzi venne la notte.
Giovanni era la mente coraggiosa
io una mano ed un cuore: cominciammo
a pensare ad azioni di rapina
per pagarci la vita clandestina
e dedicarci alla rivoluzione,
pochi, braccati, cranio a cranio al mondo.
Al primo sangue mi girò la testa
la debolezza vomitata a fiotti
sul marciapiede, e mi credetti incinta,
si sentì la sirena che ululava
mi tirarono via mezza svenuta,
mi svegliai con un senso di disprezzo
verso me stessa, ma brillava il Sole
fuori dalla finestra, sì, quel sole
uomo come Giovanni, e io la luna:
per una volta placai la mia rabbia
restando donna ai raggi di quel sole.
Quando tornò la notte ero cresciuta,
secondo sangue e niente più paura
rapina in banca con pistola anch’io
carabiniere rimasto per terra.
Giornali come ali di piccione
ferito e grigio a scuotersi impotente
tentando di spiegare la rapina
parlarono di neofascismo armato
ma nessuno sapeva chi era stato.
Nascondersi divenne obbligatorio
finché venne arrestato un camerata
malamente accusato anche di quello;
potemmo uscire sulla sua pellaccia,
affacciarci di nuovo, allora, sì,
e però qualche cosa era cambiata
una piega malsana sulle cose
che si manifestò lenta, una dose
tagliata male, non saprei neanch’io.
Sulle panchine di piazzale Libia
l’esaltazione covava il ripiego
ed io partecipavo a fratellanze
oscure e traditrici, nel vibrare
di un cupo e malinconico attardarsi
mentre la sera estiva non mollava.
Mollavo io e non me ne accorgevo.
Un giorno tornai a casa di mia madre
dopo sei mesi che non la vedevo
odiavo già i gradini che salivo
nel corridoio lungo con i quadri
le pretesi cinquantamila lire
bugiarda mi rispose “Non le ho”
mi fece venir voglia di scappare
o di spaccare, poca differenza,
la condizione senza via d’uscita
che aveva indirizzato la mia vita.
Allora alzai le braccia non so come
coi pugni in guardia come nella boxe
tra minaccia e difesa, la incalzai
lei rinculava stronza e spaventata
sotto il De Pisis sotto il Boccasile
la spinsi fino al fondo della casa
urlando fuori tutta la mia rabbia
e davanti alla porta della stanza
dove avevo dormito tanti anni
la cameretta con appesi i poster
le diedi quattro schiaffi spaventosi
e poi fuggii e non tornai mai più.
Lo raccontai a Giovanni e stette zitto
ma tanto ormai parlare era bucato
la storia era bucata come me
quelle panchine che dicevo prima
quell’eroina di piazzale Libia
la mia rivolta era finita male
quattro gatti sbandati scaricati
dalla gente più in gamba che sparava
e scontava galera ed inchiostrava
con il suo sangue nero i calendari.
Tirai a campare ancora un po’ di tempo
sono crepata nel ‘92
mi son presa la peste dei drogati
il primo AIDS, Giovanni ormai non c’era
però venne a trovarmi in ospedale
lui solo, né mio padre né mia madre,
lui che ormai lavorava imborghesito.
Ed oggi, dico adesso che è finita,
racconto come il male mi ha bruciato;
eppure non mi trovo, nel 2000,
vi vedo qui dall’alto e vedo male.
La culla del dolore, l’ospedale,
son morta tra le braccia di una suora
ho visto tutto bianco e son partita
col solo cuore che mi è stato dato.
Ho visto tutto bianco. Son partita.
Col solo cuore che mi è stato dato.

Perbenismo da basso Piemonte


Leggo questo articoletto di Elena Lisa su LaStampa:
Sposati, ma divisi (nei soldi)
Il matrimonialista "Comunione dei beni? Al Nord ormai è una scelta superata"
In Italia boom delle coppie che scelgono la separazione dei beni: ormai sono due su tre
.

Annotazioni:
-Il titolo è di un perbenismo veramente da basso Piemonte, sveglia Calabresi! In quale portafoglio si tengono i soldi (il mio-il tuo-uno comune-due separati-a caso-tanto non ce ne sono) è questione assolutamente irrilevante rispetto alla durabilità di un'unione.
-Il contenuto dell'articolo è un pasticcio: la scelta del regime patrimoniale dei coniugi non ha nulla a che fare con l'attribuzione dei tavolini e degli altri ammenicoli casalinghi in fase di separazione.
-Quanto sopra c'entra con i patti prematrimoniali come la Brioblu con il Barolo.

Niente, lo volevo dire, mi danno un fastidio pazzesco questi articoletti in cui la mancanza di logica fa il pari con la mancanza di contenuto, esclusa la marchetta all'autore del libro.

I vecchi qui a volte chiamano il nostro quotidiano "La Busarda" (bugiarda), e mica hanno sempre torto.

mercoledì 15 settembre 2010

Lui, e loro


Milano finalmente dedica una mostra a Maurizio Cattelan, a Palazzo Reale, ma il perbenismo della giunta a una settimana dal via fa le pulci al manifesto scelto dall'artista, che ritrae il suo Hitler orante.

E questo conferma oggi quello che Gramellini scriveva solo ieri nel suo Buongiorno: il doppiopesismo ormai è una categoria di pensiero abbondantemente sdoganata e già quasi superata dal cretinismo del nascondersi dietro a un dito.

Quindi da una parte abbiamo una scuola pubblica laica apartitica etc. etc. abbondantemente decorata (in barba principalmente alla costituzione e secondariamente anche al buongusto, ecchecavolo) con i crocifissi e i simboli padani, dall'altra quella che si definisce la capitale morale d'Italia incapace di distinguere tra apologia e narrazione, incapace di affermare il valore di un'opera, incapace, incapace, incapace.
Impotente.

Ricoprirei Adro, e non solo Milano, con questo manifesto.

lunedì 13 settembre 2010

Io sono un'ignorante


Io non conoscevo Letizia Battaglia. Un ossimoro al posto del nome, un destino.
Si certo, conoscevo una sua foto, quella con la pozzetta di sangue usata per una fondamentale campagna di Benetton negli anni '90.

Ma ieri su un prato dolce della Valle d'Aosta, sotto le nuvole che correvano in un cielo diametralmente opposto al suo bianco e nero di Sicilia insuanguinata, ieri ho incontrato Letizia Battaglia, nelle parole tranquille di un suo raccontarsi sull'ultimo numero di Sette del Corriere (quello di giovedì 9 settembre).

E allora non era meglio se pagavo l'ICI?


Fuggevolmente al Tg3 ho visto un servizio su una scuola materna ed elementare STATALE decorata di simboli leghisti ad Adro (BS), intitolata a Gianfranco Miglio.

(Se ne parla sul Corriere del 10 settembre).

Ne parla anche Gilioli, non c'è bisogno che io aggiunga nulla.

Se non che mi sento male a pensare che ho appena assoldato una baby sitter per accompagnare mio figlio alla materna, visto che la scuola inizia troppo tardi per consentirmi di arrivare in orario in ufficio.

Mi sento male a pensare che ho in borsa un elenco di richieste di accessori fondamentali (penne, pennarelli, risma di carta, colla, quaderni, cuscino, lenzuolino, tovaglietta, carta igienica, fazzolettini di carta e credo ancora qualcos'altro) che lo stato non è in grado di fornire alle sue scuole.

Mi sento male a pensare che il doposcuola è gestito da una cooperativa privata, perchè lo stato non ha le risorse per il personale necessario a coprire un normale orario da ufficio, lasciando il margine a servizi esterni, di dubbio valore e immagino malpagati.

La coperta è sempre più corta.
Intanto a Brescia dipingono le aule di verde.
I supermercati sono pieni di donne trafelate, liste alla mano.
Il Ministro probabilmente sta ancora cercando di decifrare il significato di Albachiara.

sabato 4 settembre 2010

Ero così felice che non sapevo cosa fare


Oggi, come sempre, la premiata ditta Fruttero & Gramellini ci racconta la storia dei 150 anni d'Italia sull'ultima pagina de La Stampa, solo in cartaceo.
Si parla del 3 settembre 1960, quando Livio Berruti si prese la medaglia d'oro dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Roma. Trascrivo l'ultimo paragrafo:

"Eccolo in pista, finalmente. Con un lembo di tuta pulisce gli occhiali neri che diventeranno una moda ma per lui -miope- sono ancora un'esigenza.
Sembra calmo, invece compie una falsa partenza. Poi arriva quella buona: affronta la curva senza sbandamenti, insensibile alla forza centrifuga, e sul rettilineoè davanti a tutti, preceduto solo da n volo di colombi. Nella sua ombra spunta Les Carney, "demoniaco negro da saga medievale", lo bolla senza scrupoli la cronaca di Gianni Brera. Ma il capolavoro di questa saga è Berruti, l'"aracangelo frigido". Sarà lui a spezzare il filo di lana, sporgendosi in avanti con il busto fino a perdere l'equilibrio. Mentre il pubblico in delirio dà fuoco ai giornali e li agita come torce nel buio dela sera, l'Arcangelo frigido" si pianta in mezzo alal pista, immobile.

Dirà: ero così felice che non sapevo cosa fare."

mercoledì 1 settembre 2010

Great American Novelist, again

Dopo la copertina di Time, e l'annuncio che Freedom tradotto in italiano uscirà a febbraio 2011, oggi su Repubblica c'è un' intervista a J. Franzen di Antonio Monda.


Che impressione le ha fatto trovarsi sulla copertina di Time?

"Mi è dispiaciuto molto che mio padre, che ha letto Time per cinquanta anni, non abbia potuto vederla. Non era un uomo che sorrideva molto, ma avrebbe sorriso per una settimana".
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