martedì 20 aprile 2010

Bianco e nero colato addosso

Mimmo Jodice in retrospettiva a Roma, Palazzo delle Esposizioni.


Rocco Moliterni su La Stampa, 19 aprile 2010

Non sono mai rassicuranti le immagini di Mimmo Jodice, anzi lui è forse il più grande fotografo dell’inquietudine. Un’inquietudine che cerca a volte invano di placarsi nella classicità e in un passato di vestigia e palazzi e statue che lui riesce per incanto a far rivivere ossia a rendere «cosa viva» e sofferente. Così il cuore della grande antologica che gli dedica il Palazzo delle Esposizioni di Roma, a cura di Ida Gianelli e Daniela Lancioni, è Anamnesi, del 1990, montaggio di dieci volti, da busti, affreschi, mosaici, statue dove l’umanità è come sfregiata, profili diventati spugnosi come se affetti da mucca pazza, nasi frantumati, guance tagliate, occhi sbrecciati o perforati. Dove un tempo era la bellezza, sembrano dirci queste immagini, oggi c’è l’orrore, un orrore però che non riesce del tutto a cancellare quella lontana bellezza perduta, l’inseguimento delle cui tracce sembra motivare buona parte dell’attività del fotografo napoletano. Un’attività che inizia negli Anni 60, quando Jodice respira l’ansia di una irripetibile stagione di ricerca, che in fotografia significa da un lato l’immergersi nel reportage sociale e dall’altro interrogarsi come Ugo Mulas sugli statuti della disciplina.

Siamo al secondo piano del Palaexpo che ospita in questi giorni l’esposizione (a cura di Achille Bonito Oliva) sulla Natura in De Chirico, e val la pena di visitare a «ritroso» la mostra di Jodice, non solo perché «Natura» è anche il titolo dell’ultima stanza con la produzione più recente del fotografo (commentata dallo stesso Abo in catalogo). Qui l’inquietudine la troviamo in rami di alberi che sembrano protendersi nel vano tentativo di afferrare qualcosa o qualcuno o che quasi soffocano la possibilità di esistere di una finestra. Poi c’è la stanza del «Mare», dove alcune immagini ti danno l’idea metafisica, immobile e soffocante, di una bonaccia conradiana, e altre piene di cieli minacciosi ti parlano di tempeste imminenti. L’uomo non c’è e non sai se non ci sia mai stato o se siamo in un universo post-atomico. Forse meno convincente il capitolo «Eden» (quanto meno per la giustificazione ideologica che ne dà lo stesso Jodice: «una metafora della violenza quotidiana, la violenza persuasiva e pervasiva con la quale bisogni indotti ed effimeri ci seducono»), dove si rivisitano cibi e oggetti, dalle zampe di pollo alle testine di vitello, dai guanti alle forbici. Poi ci si immerge nel cuore e nelle rovine del «Mediterraneo». Un viaggio, in cui, come spiegava Julide Aker in un numero di Camera Work del 1997, «i frammenti del retaggio artistico del mondo classico sono bagnati dalla luce, avvolti dall’effetto flou e collocati in un luogo che non è né qui nel presente né là nel passato».

Il nomadismo di Jodice, non solo mentale ma anche spaziale, l’ha portato a esplorare anche luoghi lontani, dall’America al Giappone, e la stanza successiva ci regala immagini hopperiane di Boston e motocicli come cavallette in un parcheggio di San Paolo.

Poi incrociamo le «Rivisitazioni», che sono ritorni a casa, ossia riconsiderazioni di quei luoghi napoletani (ma non solo) che avevano visto negli Anni 60 le prime indagini antropologiche di Jodice. Anche qui però è come se una bomba «intelligente» avesse fatto sparire gli uomini ma non le loro tracce: il Reale Albergo dei Poveri è ora una scalinata di sedie e scarpe vecchie, Suor Orsola un muro sbrecciato con uno di quei bastoni che solo al Sud si usano per tener su i fili dove stendere i panni. E nelle «Vedute di Napoli» fantasmi appaiono le auto o gli oggetti avvolti in lenzuola. Non fantasmi ma persone reali, bambini indigenti nei bassi di Ercolano o del centro storico, sono protagonisti delle serie dei primi Anni 70. Le ricerche e le sperimentazioni, non solo in fase di stampa, sono invece al centro delle prime sale, dove ad esempio debitrice a Bill Brandt è la serie di nudi e di volti femminili che si perdono nell’ombra. Ci sono giochi di montaggio come il paesaggio di Morano Calabro trattato in vari modi o i giochi alla Fontana, con il taglierino che incide davvero una foto o quelli concettuali alla Boetti, come la fotografia di una lettera inviata a se stesso.

Si esce con l’idea di aver percorso, attraverso 180 immagini in bianco e nero, un pezzo di storia della nostra fotografia: la mostra ci aiuta a capire Jodice e perché sia oggi uno dei pochi fotografi italiani apprezzati a livello internazionale. Unico limite: la mostra parla forse più alla testa che al cuore, cosa che invece riusciva a fare quella «ambientata» alcuni anni fa nel salone della Meridiana al Museo Archeologico di Napoli.

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