Anche in tempi di cassa integrazione, sono d'accordo con quel che scrive oggi Matteo Bordone, di cui riporto qui solo un pezzetto, perchè vale la pena leggere tutto il post:
(scena: Buscemi a Milano, Matteo e commesso, cd dei Baustelle)
Gli chiedo come stia andando il disco, se stia vendendo.
(Si, tantissimo) (ndr)
E poi aggiunge «C’è stato tutto. C’è stata l’attesa, e il giorno che è uscito ne abbiamo venduti un botto; poi abbiamo continuato a venderli sempre, e sempre di più. È una delle cose che sta vendendo di più in assoluto. Erano anni non vendevamo un disco in questo modo.»
Adesso la voglia di vomitare in testa a quelli che hanno dato ai Baustelle degli snobbini elitari è forte. Ma cercherò di contenermi e dire quello che penso.
Il grosso problema delle chiacchiere sui dischi e i musicisti che si leggono in rete è che chi parla non spende i soldi per comprare i dischi. Forse prima, prima degli mp3, li spendeva a Natale, ne comprava un po’ nel corso dell’anno, ma non con la continuità e la schiuma alla bocca di chi i dischi li compra dei tempi delle paghette ginnasiali, e non ha mai smesso. Spendere o scaricare non sono la stessa cosa. In quel gesto, nell’acquisto – non parlo di iTunes o supercooldigitalmuzakmarketplace.com, cercate di capire – c’è un’espressione di volontà e scelta che altrove non c’è. La stessa che vale per la moda, per i viaggi, per i cellulari. Pago per quello che mi piace e in cui mi riconosco.
Il discorso su quello che è pop o non è pop ha preso ultimamente una deriva imbecille, che si muove tra il fenomeno del mi-si-nota-di-più e quello del controsnobismo.
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