giovedì 22 aprile 2010

L'uomo col maglioncino

«Quando ero un ragazzo di quattordici anni mio padre era così ignorante che sopportavo a stento di avere quel vecchio intorno. Ma quando ne ho avuti ventuno, sono rimasto stupefatto di quanto quel vecchio avesse imparato in soli sette anni».
(Mark Twain citato da Sergio Marchionne)

Paolo Bricco oggi sul Sole24Ore

Sergio Marchionne, una casa a Torino, non l'ha ancora comprata. In Abruzzo, dove ha abitato fino a 13 anni, sì. Come ha acquistato una abitazione a Detroit.
Marchionne, con la sua vita di manager ormai totus americano che deve stare attento a non trascorrere più di 180 giorni negli Stati Uniti perché sennò ci deve pagare le imposte, nella città degli Agnelli e degli operai di Mirafiori dorme in un albergo vicino al Lingotto e si appoggia all'ufficio foresteria riservato ai presidenti, vicino a Piazza Vittorio, a fianco del Caffè Elena, panna fresca e brioche strepitose.
È proprio in questa sua distanza-vicinanza al cuore storico, industriale e sentimentale della Fiat, che nasce il successo di una ristrutturazione che ha salvato il gruppo: nel 2003, prima del suo arrivo, a fronte di un fatturato di 47 miliardi di euro il risultato netto era negativo per quasi due miliardi e l'indebitamento industriale toccava i 12 miliardi di euro.
Una ristrutturazione condotta adoperando il doppio registro: inflessibile in azienda, per disboscare funzioni dirigenziali cresciute nel corso di un secolo in maniera ipertrofica e spesso secondo criteri più da corte sabauda che da impresa moderna, e vicino al complesso mondo dei segni e delle ritualità sviluppatosi in cento anni intorno alla famiglia Agnelli. Senza subiezione psicologica, però. Una partita mentale non semplice, condotta con il pragmatismo del manager americano e il senso dell'ordine assorbito da ragazzo quando, il mercoledì e il venerdì, giocava a briscola e a scopone scientifico alla sezione di Toronto dell'Associazione nazionale carabinieri, in coppia con il padre Concezio, maresciallo emigrato in Canada.
Vicino e lontano. Durezza e rispetto. Durezza verso i collaboratori in azienda, con lui che riceve a ogni ora del giorno e della notte parti del piano industriale dalle sue prime linee italiane e vede e rivede ogni singolo aspetto, armonizzandolo e conferendogli la forma finale. Rispetto, perché se esiste oggi un team manageriale che si butterebbe nel fuoco per il suo amministratore delegato è quello della Fiat, impegnato a costruire fra Torino e Auburn Hills una realtà più integrata possibile con una buona tecnologia sui motori a basso consumo, un "azionista ombra" come il presidente degli Stati Uniti Barack Omaba e la scommessa di convergenze industriali in grado di rendere il tutto finanziariamente sostenibile.
Durezza, da all american boys, verso gli analisti: «La loro pressione mi fa un baffo, questa operazione ha una logica industriale di una chiarezza incredibile», ha detto ieri sullo scorporo dell'auto. Un rispetto, che sconfina nell'affettività, verso gli Agnelli. Con lui che invita sul palco il neopresidente Jaki Elkann, seduto in platea davanti al fratello Lapo e alla sorella Ginevra. E i due che, con un indulgere pubblico alla fisicità abbastanza inedito nella storia della Fiat, si abbracciano e si baciano.
La storia cambia. Le rovine alla Buddenbrook si possono evitare. «Quando ero un ragazzo di quattordici anni mio padre era così ignorante che sopportavo a stento di avere quel vecchio intorno. Ma quando ne ho avuti ventuno, sono rimasto stupefatto di quanto quel vecchio avesse imparato in soli sette anni», ha detto ieri citando Mark Twain prima di aggiungere «noi abbiamo studiato altrettanto. Il mondo è cambiato da quando ci siamo incontrati qui quattro anni fa». La Fiat esiste ancora. Marchionne ieri sera avrà potuto scegliere, se mangiare la pizza da Cristina, tavoli disadorni e pizza buonissima in Corso Palermo, o consumare una cena formale. Pronto per ripartire dall'aeroporto di Caselle, destinazione Detroit.

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