mercoledì 30 giugno 2010

All'ombra de' cipressi


In questi giorni, per la notizia della tragica fine di un ragazzo che sorrideva, i giornali stanno dando il peggio (la tv non oso pensare): dalle immagini di fotomontaggi con madonnine piangenti prese dal circo di Facebook in giù.

Vorrei sapere cosa aggiungono, a cosa servono le foto sudate di chi porta la bara fuori dall'obitorio?
Dei parenti con la faccia di chi stava facendo altro ed è stato chiamato all'improvviso e ricorderà sempre cosa stava facendo quando è squillato quel telefono?
Che senso ha illustrare lo scempio edilizio del cimitero di Trasacco (cosa che però mi ha scatenato il post), come fa LaStampa.it oggi, sulla pelle di gente che in quello scempio vedrà sempre un dolore in più di quello che ci posso vedere io?

Lasciamo stare. Dormi ora Pietro, morto giovane e -forse- felice.
Un cipresso avrebbe fatto una bellissima ombra.

Tutto, a tutti

"Tutti gli usi della parola, a tutti" mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico.
Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.

(Gianni Rodari)

martedì 29 giugno 2010

Due paroline da un amico


Vittorio Feltri sul Giornale oggi (via Pazzo per Repubblica)

Largo al Giovine



Michel Foucault
insegnava come il potere può produrre la verità attraverso l'ordine del discorso, ovvero esprimendo concetti logici (per quanto falsi), ed eccone la dimostrazione concreta.

Qui in Piemonte, tra un silenzio assordante, che tanto sabato iniziano i saldi e poi fa già caldo, qualcuno aspetta la sentenza del TAR sulla legittimità delle elezioni amministrative del marzo 2010 (Regionali), visto che una delle liste che sostenevano l'attuale presidente Roberto Cota è risultata (e questo lo dice un giudice) totalmente fasulla (candidati inesistenti, firme false, diciotto su diciannove per la precisione, quella del capolista Michele Giovine era autentica).

Considerando che la lista in questione ha preso 27mila voti e che lo scarto del vincente sulla Bresso è stato di soli 9mila voti, si capisce che la questione non è esattamente marginale (e non lo sarebbe in ogni caso, visto che il Giovine siede tranquillo in Consiglio Regionale dopo avere gabbato le istituzioni che dovrebbe degnamente rappresentare).

Ma Cota scende in piazza con le fiaccole, ieri sera erano in cinquemila pare, e a colpi di parole scolpisce la sua verità:

«Difendo il diritto di milioni di piemontesi a che ci sia un governo e non venga il caos. Negli Stati Uniti - ha spiegato il governatore nel pomeriggio all’assemblea generale dell’Unione industriale di Torino - Al Gore accettò la vittoria di Bush, anche se aveva preso più voti di lui, qui invece si vuole discutere di cavilli, di supposte irregolarità legate alla presentazione di una lista, una questione che è già stata esaminata da un Tribunale». «Il voto - ha detto con enfasi Cota - è stato limpido, chiaro e va rispettato, questa è una certezza. Il momento delicato dell’economia richiede che ci sia un governo, che si faccia squadra con senso di responsabilità».

E' una partita secondaria, un campo collaterale, ma qui vedremo ancora una volta quanta libertà ci si possa prendere nel fottere le regole, la legalità, il buonsenso, e anche il rispetto per chi la pensione se l'è sudata.

La sentenza è prevista per il 1 luglio.

(Ah, un'ultima cosa: visti i precedenti, tenete Borghezio alla larga dalle fiaccole, che non si sa mai).

Il chirurgo di Asti


Ieri sera alla Reggia di Venaria Paolo Conte, senza troppa anestesia, con quella voce nel naso e quelle mani nodose sui tasti, ecco, si è avvicinato e mi ha squartata, si è preso il mio cuore in mano, ci ha soffiato sopra ridendo.

Qui, tutto il meglio è già qui
non ci sono parole
per spiegare ed intuire
e capire, Madeleine
e se mai ricordare
tanto, io capisco soltanto
il tatto delle tue mani
e la canzone perduta
e ritrovata
come un’altra
un’altra vita

Allons, Madeleine
certi gatti o certi uomini
svaniti in una nebbia
o in una tappezzeria
addio addio
mai più ritorneranno, si sa
col tempo e il vento tutto vola via
tais-toi, tais-toi, tais-toi

Ma qualche volta è così
che qualcuno è tornato
sotto certe carezze
e poi la strada inghiotte
subito gli amanti
per piazze e ponti ciascuno se ne va
e se vuoi, laggiù li vedi ancora danzanti
che più che gente sembrano foulards

Ma tutto il meglio è già qui,
non ci sono parole
dararirararaaaa

lunedì 28 giugno 2010

E diciamocelo


Eugenio Corsini, langarolo classe 1924, amico di Beppe Fenoglio, ci leggeva l'Apocalisse a Palazzo Nuovo con una classe infinita; bello ritrovarlo intervistato da Bruno Quaranta su La Stampa di sabato 26 giugno:

-I greci, dunque: lei è cultore di Aristofane.
-A svettare, Gli Uccelli. Pedissequamente letti come uno spensierato invito all'evasione, sono in realtà un'opera di grande impegno politico e civile. Siamo noi gli uccelli in gabbia, con il Pistetero di turno, il Cavaliere, imbonitore incontrastato, che fa apparire come libertà la malapianta della sudditanza.

Proviamo a rispondere o ci spariamo direttamente?


Ma quale genio politico ha partorito il caso Brancher?

di Filippo Rossi
Ora che tutti hanno detto di tutto. Ora che il ministro senza ministero ha deciso che forse l’impedimento non era così “legittimo”. Ora che le polemiche politiche andranno per forza delle cose affievolendosi, una sola domanda rimane senza risposta. Ed è, forse, la domanda politicamente più rilevante. Chi è il genio che ha pensato che un’operazione del genere potesse passare inosservata? Immaginate la riunione nelle segrete stanze: facciamo così, facciamo colà. Poi uno si alza e sentenzia: idea! E tutti gli altri sorridono e pensano: è fatta! È giusto! È vero! Ma perché non ci avevamo pensato prima!

E poi dritti verso il baratro di una decisione che, al di là del merito, diventa la cartina tornasole di una politica debole, rammollita, sempre più in affanno. Perché se la politica ha bisogno di nominare un ministro che nessuno capisce a cosa debba servire, se la politica si sente obbligata a farlo in fretta, molto in fretta, non può che significare che i motivi, gli obiettivi sono altri rispetto al bene comune, rispetto alle urgenze vere.

Perché, ad esempio, in quella riunione potevano, per dire, decidere di (ri)occupare la poltrona di uno dei più importanti ministeri italiani, quello lasciato vuoto dalle dimissioni di Claudio Scajola. Solo un esempio, ovviamente. E invece no, ecco l’invenzione urgentissima di un ministro senza ministero “per la sussidiarietà e il decentramento”. Il paese non ne poteva fare a meno: i sondaggi davano l’ottanta per cento di consenso per una decisione del genere. Sembra che qualcuno abbia anche sussurrato: la nazione lo chiede. La decisione è impellente, improcrastinabile…

Di nuovo la domanda: chi è il genio politico che ha pensato che non ci fossero proteste, ripercussioni, reazioni? Chi ha potuto davvero pensare che tutto questo potesse davvero passare inosservato? Siamo di fronte a una politica che non capisce l’effetto delle proprie azioni, che sottovaluta le conseguenze di quel che si fa o non si fa, che pensa di essere intangibile e incontrollabile: ecco, forse è proprio questo il vero problema culturale che ha evidenziato tutta la vicenda Brancher…

27 giugno 2010

It was the summer Coltrane died...


...L'estate in cui Patti Smith e Robert Mapplethorpe iniziarono un percorso di arte, affetto ed iniziazione.

Inizia così "Just Kids", il libro che vorrei avere in mano ora non fosse che per questo titolo così semplice e che dice così tanto. L'ho letta anche recentemente da qualche altra parte, e saggiamente diceva "mica sapevamo di essere così belli, allora".

Stasera alla Feltrinelli di Piazza Piemonte, a Milano, a omaggiare la signora Smith, è dove vorrei essere.

Torturati da trent'anni


Venerdì La Stampa ha dedicato una doppia pagina a questa testimonianza sulla strage di Ustica.
La pubblico oggi, e ringrazio Elisabetta Lachina di avere la forza di parlare.
E i PM che ancora ci lavorano.
E i giornalisti che ne scrivono.
E tutti quelli che si ostinano a non dimenticare.



MICHELE BRAMBILLA
LA STAMPA venerdì 25 giugno 2010

Si è presentata con una mail che comincia così: «Mi chiamo Elisabetta Lachina e appartengo alla strage di Ustica». Vuole raccontare la sua storia in un libro, e ci ha inviato una prima bozza. La casa in cui mi riceve è la stessa in cui abitava allora. Guardo le stanze e provo a rivivere ciò che ho letto in quelle pagine: è la sera del 27 giugno 1980.

Elisabetta Lachina ha diciotto anni ed è in casa con sua sorella Linda, che sta per compierne quattordici. Il fratello maggiore, Riccardo, è fuori con la fidanzata. L’altro fratello - Ivano, il più grande - è in vacanza con la moglie e il figlioletto. I genitori - Giuseppe Lachina, 57 anni, fotografo, e Giulia Reina, 50 anni - sono partiti da Bologna con un DC9 dell’Itavia, destinazione Palermo. Suona il telefono, è la zia Cosima dalla Sicilia: «Elisabetta, avete notizie dei vostri genitori?». Era già successo tutto. Guardo la sala da pranzo e provo ad azionare un’impossibile macchina del tempo per vedere: Elisabetta che cerca di mantenersi tranquilla, la sorella Linda, seduta a tavola al posto della mamma, immobile, con le dita incrociate.

Poi la lunga attesa, le speranze contro ogni speranza, le illusioni, la terribile certezza. Giuseppe Lachina e Giulia Reina, e con loro le altre 79 persone che viaggiavano su quel DC9 - tredici erano bambini - a Palermo non sono mai atterrati. Il mare di Ustica restituirà solo 39 corpi. Tra questi anche i corpi dei coniugi Lachina. Quello di lei, della mamma, fu classificato come «reperto C»: un frammento di 80 grammi, identificato per un pezzo di gonna rimasto attaccato. Giovedì 1 luglio Montegrotto Terme, il paese in cui i siciliani Giuseppe e Giulia Lachina erano venuti a vivere negli anni Cinquanta, dedicherà loro una via: «Sarà una via - dice la figlia Elisabetta - per la memoria. Perché nessuno dimentichi mai».

Sono passati trent’anni e anche per Ustica, come per tanti stragi italiane, nessun processo ha fatto giustizia. Secondo la testimonianza di Francesco Cossiga, il DC9 dell’Itavia fu colpito per errore dal missile sganciato da un caccia francese, il cui bersaglio doveva essere un aereo sul quale viaggiava Gheddafi. Il giudice Rosario Priore ha finito le indagini scrivendo che il DC9 fu abbattuto da un missile nel corso di «un’azione di guerra non dichiarata». Ma non si è riusciti ad arrivare fino in fondo. Lo Stato e le alleanze internazionali hanno le loro ragioni, e un politico di quei tempi, Gianni De Michelis, ha spiegato: «Non tutto può essere portato alla luce. C’è qualcosa che può restare sopra il tavolo, e qualcosa che deve restare sotto il tavolo».

«Per ventisei anni - racconta Elisabetta Lachina - non ho mai voluto partecipare alle commemorazioni, non ho voluto leggere niente, neanche gli articoli sulle indagini: il mio cervello si rifiutava di registrare. C’era un rifiuto totale. Siccome tutto quello mi apparteneva, io mi rifiutavo di accettare che mi appartenesse. Perché avrei dovuto accettare la perdita dei miei genitori, il modo in cui sono stati uccisi. Mi sono comportata per certi versi come uno che ha visto e che tace, e per questo ho provato anche un senso di colpa».

La svolta è stata nel 2006, quando i resti del DC9 sono stati in qualche modo rimessi insieme e portati a Bologna. Elisabetta andò all’inaugurazione del museo con i familiari. «Quello che ho visto quel giorno mi ha riportato indietro di ventisei anni. Quando ho visto l’aereo, è come se avessi risentito la telefonata della zia. Per la prima volta ho pianto. Un suo collega, con il tatto che avete a volte voi giornalisti, mi si è avvicinato e mi ha chiesto: signora, ci dica che cosa prova in questo momento».

Dopo quel giorno, la sofferenza è esplosa. Elisabetta ha cominciato a non dormire più, il «dolore dentro» era diventato devastante. «Ho cominciato a scrivere - spiega - per vomitarlo fuori». Le chiedo come abbia fatto, prima, a riuscire a controllarsi. «Dicevo: è successo e basta, bisogna andare avanti. Lei ha letto ciò che ho passato quella notte. Io ho dovuto prendere una posizione, farmi carico di mia sorella, abbracciarla: non potevo piangere. Ogni tanto mi chiudevo in bagno per stare da sola. Ricordo che un giorno, non so bene se fosse il 29 o il 30 luglio, guardai fuori dalla finestra del bagno. Era una giornata di sole meravigliosa. Io adoro il sole, ma in quel momento lo odiai. Avrei voluto che tutto fosse stato buio. Invece vedevo la gente che camminava, che andava a fare la spesa. Per gli altri il mondo andava avanti come prima: forse è stato anche lì, in quel momento, che ho pensato che non dovevo fermarmi».

Ma la vita non è stata più la stessa. «Ustica ha condizionato tutta la mia vita, anche se ho cercato a lungo di rimuoverla. Sa che cosa mi ha fatto più male? È che Ustica ha due aspetti. Uno è quello di cui si è parlato tanto: le indagini, i depistaggi, le bugie, i processi. Ma l’altro aspetto, di cui non si parla mai, siamo noi. Tutte le persone morte su quell’aereo non avevano solo un nome e un cognome: avevano anche tanti familiari. Noi siamo invisibili ma esistiamo: per trent’anni siamo stati torturati ogni giorno della nostra vita. Sono trent’anni che speriamo, illudendoci, di sapere chi è stato e perché. Cerchiamo la verità, null’altro. Per questo non siamo ancora riusciti a elaborare il lutto».

Le chiedo se si siano sentiti soli. «Sì. Fin dal primo momento. Nessuno ci ha mai telefonato per dirci: l’aereo è caduto, e su quell’aereo c’erano i vostri genitori. Eravamo noi, quella notte e la mattina dopo, a telefonare a Bologna, a Roma, a Palermo: le linee erano sempre staccate. Nessuno ci ha neanche mai detto: venite a identificare i corpi. Ci sono andati i miei fratelli, a Palermo, informati dalla televisione. Sono passati i mesi e gli anni: nessuno ci ha ancora mai chiamati. Ci siamo dovuti costituire in associazione, noi familiari delle vittime, per prendere parte ai processi».

Continua: «Non ha idea di quale fatica io provi anche adesso nel parlare con lei. Detesto apparire, mostrare agli altri quello che ho dentro. Ma veda, su quell’aereo c’erano 81 persone fra cui mio padre e mia madre, e potrebbe esserci stato chiunque di noi. Credo che sia interesse di tutti gli italiani sapere la verità. Credo che sia interesse di tutti battersi affinché una cosa così non possa accadere mai più». Le chiedo se è stata mai felice, in questi trent’anni: «La felicità è mia figlia Giulia, che oggi ha 25 anni. Quando l’abbraccio, io sono felice. Ma ho sempre paura che le possa succedere qualcosa: noi siamo tutti la conseguenza del nostro passato, e Ustica ha condizionato non solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri figli».

C’è un vecchio filmino in Super 8 che Giuseppe Lachina aveva girato poco prima di quel 27 giugno 1980. È un altro viaggio da Bologna a Palermo. L’aereo è lo stesso. Si vede la torre di controllo, la moglie Giulia che sale la scaletta, si gira e saluta. È una domanda da povero ingenuo, ma la faccio lo stesso: signora Elisabetta, sono in tanti a sapere la verità, possibile che nessuno abbia una crisi di coscienza, un rimorso? Possibile che nessuno possa decidere di parlare per placare la vostra sete di verità? «Mi sono chiesta tante volte che cosa avrei fatto io nei loro panni, e non so se avrei avuto il coraggio di parlare, forse avrei avuto paura per la mia vita e per quella dei miei figli». È umano. Ma è umana anche la speranza che qualcuno possa vivere una notte da Innominato.

venerdì 25 giugno 2010

Fuori tema


Non ho avuto la forza di scirverlo io, ma sottoscrivo parola per parola e riporto integralmente il post di Slumberland sull'inspiegabile presenza di una citazione del Mussolini più fascista e anticostituzionale di sempre, nella traccia del tema sulla giovinezza.
Fuori tema, Signora Ministro.

PERCHE' SIA CHIARO
, di Slumberland

Pensava che non ci fossero dubbi, in proposito. Ma - visto che oggi a scuola ha trovato molte persone sedicenti democratiche, contestatrici, "di sinistra", e, soprattutto, insegnanti, che sostenevano, stupite, che "ma no, dai, le tracce del ministero non erano proprio niente male" - la 'povna ritiene che sia il caso di dedicarvi ancora due pensieri due. E non vuole stare a far polemica a proposito di quella sulle foibe e il fronte orientale; e nemmeno soffermarsi sulla generica idiozia di quella sulla musica (dove la citazione di Aristotele le ricorda sempre una vecchia battuta di Viola su certi clichés dell'altro mondo, quando una persona, per tirarsela, sostiene che "Come dice Walter Benjamin, piove"); o strapparsi le vesti sulla traccia scientifica che invitava il candidato a interrogarsi sul quesito "Siamo soli?", a proposito degli UFO.
No, vorrebbe solo ricordare, la 'povna, che nel tema di ambito 'storico-politico' "Il ruolo dei giovani nella storia e nella politica. Parlano i leader", il candidato era invitato a esprimersi su citazioni provenienti da Togliatti, Moro, Giovanni Paolo II e Mussolini. E che - se almeno le prime tre avevano il dubbio merito di mettere i giovani al centro della riflessione - quella del duce, fuori contesto, e senza ulteriori spiegazioni, riproponeva il momento storico cruciale di trasformazione in regime del fascismo, dopo il delitto Matteotti. Quella truce, terribile, e famosa che (il copia/incolla, fedele, è dai fogli ufficiali della traccia) faceva così (applausi della trascrizione della Camera inclusi):

«Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. (Vivissimi e reiterati applausi — Molte voci: Tutti con voi! Tutti con voi!). Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda; se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! (Applausi). Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! (Vivissimi e prolungati applausi — Molte voci: Tutti con voi!)».
Benito MUSSOLINI, Discorso del 3 gennaio 1925 (da Atti Parlamentari – Camera dei Deputati – Legislatura XXVII – 1a sessione – Discussioni – Tornata del 3 gennaio 1925 Dichiarazioni del Presidente del Consiglio)

Riferimenti incrociati

Vanity Fair di questa settimana pubblica (N° 25/2010, pag. 122) un bell'articolo su "La scuola della legalità", un liceo calabrese frequentato da molti figli e nipoti dei capoclan, in carcere o uccisi, e dove la preside Maria Rosaria Russo combatte e vince una battaglia silenziosa e importante all'ambiente mafioso.
E' un lungo articolo significativo, che parla di come la mafia si cura partendo dal basso, e parla di chi fa quotidianamente il suo lavoro con energia e determinazione, e di quanto questo sia importante.

Ma qui mi interessa riportare questo brano:

"Di recente - racconta la preside- un'allieva, nipote del capoclan Pesce, durante un incontro con un capitano della Guardia di Finanza ha detto di voler diventare finanziere. Lui le ha risposto che non può partecipare al concorso per via del suo cognome. Per entrare nelle forze dell'ordine bisogna avere uno stato di famiglia senza ombre."

Ecco, io mi chiedo, se fossi quella ragazza, se avessi in me quella spinta bella dei diciassette anni, quella che ti fa preferire un futuro in grigioverde piuttosto che da moglie di latitante, e se mi si rispondesse in questo modo, a fronte di un parlamento dove siedono non uno o due ma una trentina di condannati in cassazione, a fronte di un ministero creato dall'oggi al domani per ringraziare un fedele sodale (pluricondannato pure lui) e consentirgli di usufruire del legittimo impedimento
, ecco, a fronte di tutto ciò, io che farei?

Il finanziere?
Ma vaffanculo.

Legami

"Non c'è alcuna gloria a vivere da vittima. Mi è solo capitato di essere lì e di avere sofferto tanto, ma adesso ho anch'io il diritto alla felicità, a sorridere, a godere della vita.
La vittima riceve onore e rispetto, ma rimane prigioniera del suo mito, dev'essere sempre triste e addolorata e in gramaglie, sempre a chiedere vendetta o giustizia. Rimane eternamente legata al suo carnefice.
Se invece perdoni, sei libera".
(Eva Mozes Kor, sopravvissuta agli esperimenti di Mengele ad Auschwitz, intervistata da Manuela Dviri su Vanity Fair N°25/2010, Belen in copertina)

giovedì 24 giugno 2010

Si, purtroppo


Altan in prima su Repubblica oggi, 24 giugno.

M il miglior commento è di un operaio di Pomigliano, che sulla scheda del referendum in cui gli si chiedeva se accettava l'accordo di Fiat con una parte del sindacato, ha scritto "SI, PURTROPPO".

Penso che anche io avrei votato sì.
Però sono agghiacciata da questo gioco di forza in cui la dialettica tra le parti è solo simulata. E di questa simulazione trovo più responsabile il sindacato, rispetto al padrone.

Mai più

No alla legge Porcellum. Mai più al voto con questa legge elettorale

mercoledì 23 giugno 2010

Maturità, traccia 2

Il tema di Concita:


«Ho scelto di svolgere il tema dal titolo La ricerca della felicità perché proprio l'altro ieri a casa mentre mia madre preparava la cena abbiamo discusso di questo, mio fratello Antonio non parlava perché siccome ha avuto due debiti gli hanno tolto i cavi del computer e anche il credito al cellulare che già era poco, cinque euro a settimana e lui diceva sono una schifezza cinque euro, adesso niente. Mio padre ha detto è inutile che tu faccia la sceneggiata lui ha risposto tanto lo so che mi odi e ha buttato la forchetta facendo schizzi di salsa, mia madre si è messa a piangere ha detto smettetela che la ragazza ha l'esame deve stare tranquilla, possibile che non ci sia mai un momento di pace, mio padre ha detto ma quale pace, questi dovrebbero mettere un cero alla madonna tutti i giorni per i sacrifici che facciamo per vederli felici, allora io ho detto che ne sai tu di felicità, lui si è fatto triste negli occhi e ha detto niente, ne so, hai ragione, brava, a qualcosa è servito farti studiare, hai visto.


Mio padre Gerardo stamani deve votare il referendum dello stabilimento. Lui vota sì, lo ha scritto ieri in una lettera al giornale, perché dice che se perde il lavoro ce ne andiamo tutti a fare i manovali della camorra, che già la vita è uno schifo si alza alle quattro e mezza tutte le mattine per essere ai cancelli alle cinque, quando torna mangia un piatto di minestra va a dormire un'ora e alle tre ricomincia con l'altro lavoro da Fabio il carrozziere, la sera è morto di stanchezza non si vede nemmeno la tv. Però due figli a scuola, dice, e la moglie a casa come li campa, se no.



Certo, ha scritto nella lettera, coi criminali si guadagna meglio ma questo poi l'ha cancellato. L'accordo fa schifo, gli ha strillato l'altro giorno mia madre e lui gli ha detto che credi che non lo so che fa schifo, siete bravi tutti a parlare poi però il lavoro lo perdo io. Dice che era meglio quando in fabbrica non c'era nemmeno l'aria condizionata si schiattava di caldo ma almeno alle assemblee erano migliaia e il sindacato sì che contava e si stava tutti uniti. Nella traccia del tema c'è quell'articolo di giornale che spiega che quando migliorano le condizioni di vita, col progresso, non aumenta la felicità delle persone e non si capisce come mai. Questo intende mio padre, credo: lui l'ha capito. Che il caldo pazienza se però erano uniti. Poi mi ha colpito l'autore Zamagni che dice reciprocità condivisione, anche questo credo che intenda mio padre: erano in tanti e si sentivano insieme, si aiutavano a vicenda mentre adesso invece è più facile che ciascuno stia da solo. E' bello l'articolo della Costituzione però mi dispiace dirlo ma non è vero, non hanno tutti la stessa dignità: quelli che ne hanno di più se la devono ingoiare, quelli che ne hanno meno comandano per tutti. Anch'io credo come l'autore Bauman che deve essere bello tentare l'impossibile, deve essere una cosa che ti fa sentire felice ma se penso una cosa impossibile è che la mia famiglia sia più felice e allora vedo che non so come si fa, non dev'essere questo che voleva dire l'autore e spero almeno di non essere andata fuori tema che se non passo l'esame Antonio non può nemmeno usare il mio telefono come gli ho promesso, e allora altro che felicità».

martedì 22 giugno 2010

Le parole sono importanti


Libertà e Giustizia è un'associazione che ha "urgenza di democrazia".
L'inziativa del "Lessico del Populismo e della Volgarità" è bellissima, una piccola luce.

L’intenzione è quella di raccogliere parole, espressioni, modi di dire usati in maniera difforme, a volte persino contraria al loro significato. La raccolta darà come risultato il Dizionario del populismo.

Ecco, di seguito, le prime voci:
-Mettere (non mettere) le mani nelle tasche degli italiani
-Condividere la memoria storica
-Essere radicati nel territorio
-Esporre alla gogna mediatica
-Scendere in campo
-La magistratura vuole sovvertire il voto
-Il presidente del Consiglio non ha poteri

lunedì 21 giugno 2010

Se sono onesti non li vogliamo


Dice Gilioli che tanti anni fa a Milano c’era una bettola talmente mal frequentata – dalle parti di Lambrate – che qualcuno all’ingresso ci aveva messo un ironico cartello con su scritto: “Vietato l’ingresso a chi ha la fedina penale pulita”.

A rileggere la biografia del nuovo ministro per il federalismo, Aldo Brancher, c'è da chiedersi se il cartello e’ ancora recuperabile da qualche parte.


(La foto è presa da qui: sono due notizie totalmente scollegate, ma se tanto mi da tanto almeno che si applichinpo gli stessi parametri per l'accesso al bar e al governo.)

sabato 19 giugno 2010

Ecologia di pensiero

Devendra Banhart intervistato su D di Repubblica di oggi 19 giugno 2010:

-Di cosa ha paura?
-Niente! Ah ah ah ah! Mi ricordo che una volta ho visto un aereo volare molto basso, vicino a uno stormo di uccelli. Ho chiesto a mio padre: 'Pensi che abbiano paura di quell'aereo?'. E lui: 'Non sprecano tempo a pensarci...'.

giovedì 10 giugno 2010

Il photoblog più bello di tutti


... per me è definitivamente quello di Paolo Virzì, che ti prende per mano e ti racconta una storia.

Oggi con una guest star mica da ridere.

Voglio fotografare e raccontare storie.

Tutorial sul make up



Lo devo riconoscere, da quest'uomo io ho molto da imparare.
(Via ManteBlog)

Morituri

Unico o quasi, il Post sta documentando l'agonia silente del sistema scolastico pubblico:

Flavia Perina sul Post di ieri:

La marcia indietro della Gelmini e la scuola del ‘68
9 giugno 2010

Onore al preside Michele D’Elia, del liceo Vittorio Veneto di Milano. È stato tra i primi a pubblicare gli scrutini di maturità: tutti ammessi tranne due, a confermare la promessa di non escludere dall’esame nessuno per un semplice cinque in una materia, così come prevedono le disposizioni ministeriali dell’ordinanza 44 firmata dalla Gelmini. «Come avremmo potuto non ammettere un ragazzo per colpa di una sola insufficienza?», ha spiegato D’Elia invitando le altre scuole e l’opinione pubblica a un esame di realismo e buon senso. E a chi ha parlato polemicamente di un ritorno al famigerato “sei politico”, ha risposto: «Piuttosto la chiamerei attenta valutazione del profitto di ciascuno studente, senza penalizzarlo a tutti i costi». Già, perché magari si dovrebbe ogni tanto ricordare che l’obiettivo della scuola non è espellere i somari ma far crescere tutti. E il diritto a “giocarsi” la chance della maturità è insito nella nostra tradizione culturale e liceale, che considera quella prova un “rito di passaggio” e una verifica della personalità che può dare un’opportunità di crescita a ognuno, compresi i distratti, gli indisciplinati, i casinisti che per farcela dovranno studiare il triplo dei bravi e dei tranquilli. Neppure la Gelmini ha potuto obiettare al buonsenso del liceo Vittorio Veneto, e un po’ di marcia indietro sulla norma 44 l’ha fatta. Adesso, magari, qualcuno potrebbe cominciare a mettere in discussione l’ossessione severista della scuola italiana e il suo presupposto ideologico, cioè la necessità di “ricostruire la serietà didattica distrutta dal ‘68”. Molti studenti sessantottini sapevano di letteratura e di filosofia più di tanti insegnanti (e politici) contemporanei. E, come ebbe a dire André Glucksmann, chi conosce un po’ la storia sa che non fu il ‘68 a mettere in crisi la scuola, “fu semmai la scuola in crisi ad aver causato il Maggio del ‘68. Da un pezzo la scuola non era più all’altezza dei suoi compiti. Si soffocava. Bisognava respirare…”.

Un altro articolo sempre dal Post di ieri:

Le agitazioni di queste settimane sui tagli alla scuola pubblica, da parte di persone che ci lavorano, di genitori, o di semplici persone che hanno cari i destini dell’Italia, conoscono un ostacolo piuttosto particolare: il loro scarsissimo potere, chiamatelo contrattuale o ricattatorio. In quanto servizio pubblico e gratuito -- dettato solo da una nobile intenzione di portare benefici ai cittadini e al paese -- la scuola è per uno stato concentrato sulla cassa solo un costo: il suo indebolimento non ha nessuna controindicazione la corda della pazienza dei cittadini si può tirare a lungo, fino a che si garantisce agli elettori maggiorenni che i loro figli si trovino all’interno di in un edificio scolastico. A loro volta, cittadini, genitori e insegnanti insoddisfatti del servizio non hanno molte armi per far sentire le loro proteste e proposte: la formula dello sciopero non crea conseguenze negative per nessun interese economico, e nemmeno le canoniche occupazioni e manifestazioni, vissute con noia e sfinimento anche dai molti che vi partecipano.

Chi ha cara la scuola e il suo valore per la crescita del paese ha le armi spuntate. E il maggior partito di opposizione, che dovrebbe rappresentare tali istanze di fronte al nemico rappresentato dal governo e dai suoi interventi, non sembra in grado di strutturare, organizzare, dare strumenti e rendere efficace questa protesta. In giro per l’Italia, quindi, si improvvisano manifestazioni ma nella maggior parte dei casi ci si sente inermi e pronti al peggio. Ci sarebbe bisogno di inventive ed efficaci idee di comunicazione e di ampiamento del fronte, o di conquista del manico del coltello.

Sulle prime oggi ha cominciato a lavorare un gruppo di bolognesi, con un’iniziativa piccola come tutte le iniziative che non sono ancora diventate grandi: “Tutti devono sapere“.

Oggi a Bologna piccoli gruppi di persone -- insegnanti e genitori -- in un’ora di punta sono saliti sugli autobus di alcune linee cittadine, distribuendo volantini e informando tutti i passeggeri di quel che sta accadendo alla scuola pubblica.
Tre quattro persone ogni gruppo. Appena saliti alcuni iniziano a distribuire i materiali informativi mentre la voce di un terzo si alza, robusta ma pacata e dice:

Buon giorno a tutte e tutti.
Scusate il disturbo ma la cosa che dobbiamo dirvi è importante, crediamo, non solo per noi.
Siamo genitori e insegnanti e vogliamo dirvi che la scuola pubblica, la scuola di tutti sta morendo.
E’ sottoposta a un’aggressione senza precedenti.
Sui messaggi che distribuiamo sono indicate le ragioni di quello che stiamo dicendo.
In poche parole stanno tagliando ore di insegnamento, insegnanti e risorse economiche alla scuola pubblica mentre aumenta il numero degli studenti.
Tutti devono sapere che una scuola pubblica sempre più povera prepara una società più ignorante, più divisa e più insicura.
Tutti devono sapere che presto la nostra scuola pubblica sarà di serie B.
Tutti devono sapere che presto dovremo chiedere un mutuo alla banca per far studiare i nostri figli.
Contiamo che anche voi siate sensibili al disastro cui va incontro la scuola dei nostri figli.
Contiamo che anche voi ci aiutate a informare tutti.
Raccontate a tutti la scena a cui avete assistito oggi perchè tutti devono sapere.
Grazie per l’attenzione, noi proseguiamo sul prossimo autobus.

Su Facebook c’è la riproduzione del volantino, l’annuncio delle prossime iniziative e il racconto dell’esperienza di oggi:

Sulle linee 27 e 30 scattano addirittura applausi scroscianti.
Ovunque c’è attenzione, partecipazione, curiosità, spaesamento. Molti dicono semplicemente “grazie”. I volantini vengono richiesti da tutti.
È proprio vero che la scuola non è finita!
E la riprova bisognerà darla ancora giovedì 10 dalle 17 in poi, quando l’Ufficio Scolastico Regionale sarà di nuovo circondato da genitori, alunni e insegnanti per una nuova “Protesta in Festa”.
Saremo davanti all’USR, nella piazza e nei giardini limitrofi, “impacchetteremo” la zona con i nostri volantini, assisteremo alle performance di attori, clown e musicisti, faremo un ingresso finale nel foyer del Teatro Comunale dove ci aspettano i giovani artisti che si battono contro l’attacco alla cultura.

Giovedì 10 saremo di nuovo a difendere la scuola di tutti e di ciascuno.
Perchè noi non molleremo mai.
La scuola pubblica è come l’acqua.
Tutti devono sapere che non la vogliamo perdere.
Per noi non è ancora finita!

Alla fine, il destino della scuola italiana si giocherà nel rapporto di forze tra chi pensa sia uno dei progetti più importanti per una società civile e chi non lo pensa, e negli sforzi che i primi sapranno fare per diventare maggioranza.

mercoledì 9 giugno 2010

La Costituzione immaginata e la Costituzione scritta


Se c'è una grande virtù de La Stampa, è quella di scegliersi dei collaboratori esterni favolosi, come Michele Ainis, che ieri con la sua verve ha pubblicato questo:

L'impresa e l'alibi dell'articolo 41
di MICHELE AINIS

La Carta costituzionale è al contempo la carta d’identità di un popolo. Ne elenca i tratti culturali, anziché quelli somatici. Poiché in Italia nessuno la conosce, significa che non abbiamo idea di cosa siamo. Peggio: significa che ci sentiamo liberi di plasmare ogni mattina i nostri connotati, senza preoccuparci della fotografia scattata dai Costituenti. Ma c’è un’insidia più grave dell’oblio: il falso ricordo, tanto più se procurato con l’inganno. Un esempio potrà forse aiutarci a risvegliare la memoria.

Quale? L’art. 41 della Costituzione. Urge cambiarlo, ha detto nei giorni scorsi il ministro dell’Economia. Altrimenti la libertà d’impresa rimarrà per sempre una chimera, ostaggio d’uno Stato ficcanaso. Applausi bipartisan, con l’opposizione - da Morando a Violante - pronta a concorrere a questa rivoluzione liberale. E i cittadini? Avranno pensato che quella norma l’aveva vergata di suo pugno Stalin, che la Costituzione italiana del 1947 sia una ristampa anastatica della Costituzione sovietica del 1936. Poiché il professor Tremonti è persona colta, lui certamente sa cosa c’è scritto nei tre commi dell’art. 41. Noi invece dei nostri studi ci fidiamo poco, sicché apriamo un codice e inforchiamo un paio d’occhiali.

Primo comma: «L’iniziativa economica privata è libera». Dunque o stiamo consultando un testo apocrifo, oppure la libertà d’impresa ricade già fra i nostri valori collettivi. Che altro dovremmo aggiungerci per renderla più libera? Forse un termine di comparazione: libera come il vento, come un pesce, come il Popolo della libertà. Ma andiamo avanti, magari l’intralcio sbuca dal rigo successivo. Secondo comma: «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». E che dovremmo dire? Che le imprese d’ora in poi saranno inutili o dannose? Che gli industriali devono esser liberi di brevettare giocattoli pericolosi, auto inquinanti, ecomostri, farmaci nocivi? Che possono trasformare le loro fabbriche in altrettanti lager?

Eppure è questo il gluteo su cui andrebbe a conficcarsi l’iniezione ri-costituente. Non può trattarsi infatti del terzo e ultimo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Perché no? Perché senza controlli ciascuno farebbe un po’ come gli pare, svuotando il secondo comma dell’art. 41. Altrimenti sarebbe come predicare la sicurezza sulle strade, licenziando al contempo tutti i vigili urbani. E perché se in tale norma s’individua viceversa la matrice delle leggi di piano, è bene ricordare che la prima e ultima legge di tal genere venne approvata nel 1967. Basta lasciare in sonno il terzo comma, dato che dorme da più di quarant’anni. A meno che il problema non siano i «fini sociali» dell’economia pubblica e privata. Si sa che il Pdl, quando sente menzionare Fini, fa un salto sulla sedia.

Insomma l’art. 41 non è che un alibi, uno schermo. Serve a scaricare sulla Costituzione l’impotenza dei politici a inaugurare una stagione di riforme liberali. Dice: ma l’art. 41 tace sulla libertà di concorrenza. E allora? Sarebbe forse incostituzionale l’Antitrust (per chiamarla col suo nome di battesimo: Autorità garante della concorrenza e del mercato), che bene o male funziona dal 1990? Non c’è forse l’art. 117 della Costituzione, che assegna alla legislazione dello Stato la «tutela della concorrenza»? Non c’è un fiume di norme europee - recepite nel nostro ordinamento - che a loro volta proteggono il libero mercato? Altrimenti non si capirebbe perché mai nella giurisprudenza costituzionale la «tutela della concorrenza» figuri in 131 decisioni, il «libero mercato» in 44, la «libertà di iniziativa economica privata» in 81, e via elencando.

Ma dopotutto non è questo ciò che importa. In Italia non conta la Costituzione scritta, conta quella immaginata. Occorre un bel po’ di fantasia, però i nostri politici ne hanno la bisaccia piena. Come diceva Giambattista Vico, la fantasia tanto più è robusta quanto più è debole il raziocinio.

Dio mostrava il figlio suo

Un pezzo da ricordare, di Stefano Nazzi sul Post oggi.

Vermicino e l’Italia intorno 29 anni fa
9 giugno 2010

Lo so che tanti detestano gli anniversari, le ricorrenze. Tanti sbuffano. Ci sono però date a cui ci accorgiamo di essere in qualche modo legati. È quando, passati anni, ricordiamo esattamente che cosa stavamo facendo, come eravamo. E così io mi ricordo, e me lo ricordo bene, il giorno in cui scoprii che esisteva, a due passi da Roma, un posto che si chiamava Vermicino. E che in giro per le campagne c’erano buchi brutti e profondi, i pozzi artesiani.
Il 10 giugno di 29 anni fa, verso sera, un bambino di sei anni cadde in un pozzo artesiano, vicino a casa. Si chiamava Alfredo Rampi, da quel giorno tutti l’hanno chiamato Alfredino. Nella foto passata dai telegiornali sorrideva e aveva una canottiera. Io non so come tutto cominciò, la leggenda dice che un giornalista del Tgr, l’11 giugno, vide un lancio Ansa che parlava di questo bambino intrappolato là sotto, sembrava che lo stessero per tirare fuori. Avvertì il direttore del Tg1 che decise di fare un collegamento alla fine del telegiornale. Il direttore era Emilio Fede, disse anni dopo che quella storia gli sembrò «un asso nella manica, una cosa da girare in positivo, per concludere bene il telegiornale» (L’asso nella manica era un vecchio film americano che raccontava una storia simile). Anche il Tg2 si collegò, in studio c’era uno bravo, Giancarlo Santalmassi (forse è nostalgia, allora sembrava bravo perfino Emilio Fede). Doveva durare un attimo, credevamo che da un momento all’atro Alfredino sarebbe stato tirato fuori. Non fu così, i pompieri avevano fatto la cosa più stupida del mondo facendo scendere una tavoletta di legno a cui il bambino doveva aggrapparsi. La tavoletta si incastrò, fu un disastro. Arrivarono giovani speleologi ma i pompieri li mandarono via: era arrivata la Tv, doveva essere lo Stato a salvare il bambino.
Finì che quel collegamento con Vermicino andò avanti, e avanti, e avanti ancora. Vicino al pozzo artesiano c’erano i pompieri e la mamma e il papà di Alfredino. E davanti alla Tv sempre più gente. Io studiavo per la maturità, andai a ripetizione quel giorno e la professoressa aveva la TV accesa, tutti l’avevano accesa. Nel pomeriggio del 12 giugno a Vermicino arrivò anche il presidente Pertini, Alfredo era là sotto da 46 ore. Fu scavato un pozzo parallelo ma quando i pompieri bucarono la parete convinti di poter prendere il bambino e liberarlo si accrosero che la trivellazione l’aveva fatto scivolare ancora più sotto, a 60 metri. Erano tutti concitati, tutti agitati. La gente attorno e questi grandi fari a illuminare, sembrava un enorme set ma nessuno recitava. Un pompiere parlava nel buco, parlò continuamente non smise un attimo, diceva «Stai tranquillo, ora ti tiriamo fuori». C’era un signore con una giacca chiara, era il capo dei pompieri, si chiamava Elveno Pastorelli. L’angoscia saliva, saliva, saliva. Su Youtube si trova la registrazione de “La storia siamo noi” dedicata a quei giorni. C’è un punto, nel terzo spezzone, in cui i soccorritori calano giù un microfono. Si sente la voce di Alfredo che dice «mamma, mamma, mamma». E poi «Basta, basta». Come se implorasse «Smettetela di fare i cretini là sopra, ora tiratemi fuori». Si sta male a sentire quella vocina, si sta male davvero.

C’è un bel libro di Massimo Gamba, uscito tre anni fa, che racconta tutta quella storia e commuove.

Dicono che quella diretta infinita da Vermicino fece dimenticare agli italiani ciò che era accaduto solo pochi giorni prima: il 21 maggio era stata resa pubblica la lista della loggia Propaganda 2, un elenco di oltre 900 nomi. E qualcuno di loro è ancora lì. Il governo Forlani si era dimesso cinque giorni dopo, poi toccò a Spadolini. Il 13 maggio Alì Agca averva sparato al Papa. Ma è vero, in quelle ore nessuno ci pensava più. Quella notte da ogni finestra veniva la stessa luce, tutte le Tv rimasero accese. Vi ricordate, era l’epoca in cui le annunciatrici dicevano «Vi raccomandiamo di moderare il volume del vostro televisore…», perché d’estate con le finestre aperte ci si dava parecchio fastidio. Quella sera però tutti ascoltavano la stessa cosa, tutti guardavano la stessa storia. A pensarci ora sembra pazzesco che non siano riusciti a tirarlo fuori, a salvarlo.
A un certo punto calarono un volontario magrissimo, 60 metri a testa in giù. Si chiamava Angelo Licheri, faceva il tipografo. Arrivò a toccare Alfredo, gli prese le mani ma scivolarono via per il fango. Ha passato la vita a pensare a quelle mani che sfuggivano. Ci provò anche un altro. E poi capirono tutti che Alfredo sarebbe rimasto là sotto. Fu detto dopo 60 ore di diretta, lo spiegò un medico: «Abbiamo purtroppo la ragionevole certezza che Alfredino Rampi sia morto». Giancarlo Santalmassi disse: «Volevamo vedere un fatto di vita e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo prossimamente a lungo a che cosa sarà servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremmo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi».
Il corpo di Alfredo fu recuperato l’11 luglio 1981, 28 giorni dopo la sua morte.
In quei giorni di giugno nacque la Tv del dolore. Quell’anno alla maturità diedero un tema sui mezzi di comunicazione di massa perché tutti avevano capito che era accaduto qualcosa di nuovo, che la televisiione da allora sarebbe stata un’altra cosa. Nacque anche l’idea della Protezione civile, in quei giorni. Il primo a dirigerla fu Elveno Pastorelli, il capo dei pompieri. Tanti anni dopo su questa storia i Baustelle hanno scritto una canzone, si chiama “Alfredo”. Dice: “Un pezzetto bello tondo di cielo d’estate sta sopra di me…” E poi “Pertini, Wojtyla, la P2″.
Quel pozzo artesiano ora non c’è più, a Vermicino è cambiato tutto, c’è un monumento: Alfredo tende una mano verso l’alto.
Dopo la maturità, con gli amici andammo in vacanza in Francia, in auto. Nel bagagliaio avevamo un pallone, dove ci fermavamo lo tiravamo fuori: finiva dappertutto, nei fossati, in mare, nei cespugli, nei fiumi. Lo recuperavamo sempre, iniziammo a chiamarlo “Alfredino”. Quando l’ho raccontato, anni dopo, mi hanno detto che eravamo cinici. È vero, forse. Ma era anche una dimostrazione d’affetto, noi ad Alfredino volevamo bene. Quel pallone lo recuperammo sempre e tornò in Italia con noi.

martedì 8 giugno 2010

Piagnucolare

«Alcuni piagnucolano, altri bestemmiano ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti». (Antonio Gramsci)

lunedì 7 giugno 2010

Girlfriend in a coma


E allora se il lunedì sei sull'orlo della disperazione e ti affiora in testa Douglas Coupland, accetta il fatto che c'è qualcosa da sistemare.
Oppure rileggilo e non rompere, ragazza.


Domanda: se potessi, rifarei tutto da capo? Assolutamente sì, perchè da quanto è successo ho imparato qualcosa. In genere non si impara mai da quello che succede. O magari si trova il modo di dimenticarsene quando conviene. Quasi tutti, in genere, di fornte a una seconda possibilità finiscono invariabilmente per sputtanarsela. E' una di quelle leggi universali che non riusciamo a scrollarci di dosso. Ho notato che la gente sembra imparare qualcosa solo se gliene viene concessa una terza, dopo avere sprecato quantità smisurate di tempo, soldi, gioventù, energia, quello che preferite. Però alla fine si impara, ed è meglio tardi che mai.
(Douglas Coupland, Fidanzata in coma)

(La foto è mia, San Diego 2009)

Due pesi e due misure, always

Grazie a Daniele Sensi, che ne fa una chiosa più che esaustiva, leggo e riporto da Varese News la notiziola istruttiva del giorno:

Quei gazebo della Lega sul mio terreno

Sandro Polita lamenta quella che a suo dire è stata un'indebita intrusione. “Su quei prati non si può fare nulla, perché il Comune non ha mosso un dito?”

I banchetti che la Lega Nord ha installato a Capolago durante la manifestazione “Abbracciamo il lago” «erano su terreno privato»: a lamentare l'occupazione il proprietario dell'area, Sandro Polita, che ha segnalato il fatto a Varesenews.
«I terreni su cui sono stati posizionati i banchetti – ha spiegato al telefono l'imprenditore con tono scocciato – sono di proprietà del Gruppo Polita».
Si tratta dell'area che sta esattamente dall'altra parte della strada provinciale 1 rispetto all'albergo di Capolago, nei pressi della rotatoria.
«Nessuno ci ha chiesto il permesso di posizionare i gazebo sul prato – spiega Sandro Polita. Se ce l'avessero domandato, probabilmente non avremmo detto di no. Ma il punto è anche un altro: non mi capacito del fatto che il Comune non sia intervenuto. L'area in questione è una "sic" /sito d'importanza comunitaria) sottoposta a vincoli ambientali strettissimi: praticamente non si può fare nulla. Al nostro gruppo sono state comminate sanzioni salatissime per aver fatto molto meno rispetto alle salamelle leghiste. Un esempio? E' necessario chiedere i permessi per rimuovere perfino le piante cadute: non da tagliare, cadute a terra da sole. Mi chiedo se vengono usati due pesi e due misure nel sorvegliare queste aree, tra l'altro, lo ricordo, di nostra proprietà».

Se ce l'ha fatta Mandela...

IL PARTITO “FONDATO SUL LAVORO” E L’APARTHEID TRA I LAVORATORI
Intervento di Pietro Ichino nella sessione plenaria dell’Assemblea nazionale del Pd - 22 maggio 2010


Immaginate che, trent’anni or sono, in Sud Africa un partito si fosse rivolto ai neri, che allora erano pesantemente discriminati su tutti i piani da un regime di ferreo apartheid, con un discorso di questo genere: “noi auspicheremmo per voi una piena parità rispetto ai bianchi, ma ci rendiamo conto che questo è un obiettivo prematuro e un po’ troppo costoso; per il momento, dunque, non potete pretendere di salire sugli stessi autobus dei bianchi e di mangiare nei loro stessi ristoranti;
per voi proponiamo soltanto la graduale introduzione di una base di diritti di cittadinanza”. Secondo voi, quel partito avrebbe potuto qualificarsi come “democratico”?
Ora, considerate che, alle porte di una grande città del nord, c’è una grande impresa editoriale, dove lavorano come redattori e correttori di bozze 1100 bianchi, con rapporti di lavoro subordinato regolare, e 400 neri, suddivisi in paria di serie B (quelli con rapporto di lavoro “a progetto”), di serie C (quelli con “partita Iva”) e di serie D (gli stagisti pagati 300 euro al mese). Bianchi e neri fanno tutti esattamente gli stessi lavori, gomito a gomito tra loro, ma con alcune differenze: che quando c’è da chiudere un libro urgentemente, sono i neri che fanno le ore piccole senza una lira di straordinario; e che, viceversa, quando il lavoro non c’è, sono i neri a essere mandati a casa, senza un giorno di preavviso e senza un euro di indennizzo. Poi ci sono alcune altre differenze: i neri non vengono pagati se si ammalano, non hanno limiti di orario, non hanno diritto a permessi o ferie retribuite. Non hanno diritto neanche alla chiavetta per la macchina del caffè, al materiale di cancelleria, al parcheggio dell’auto in azienda, a salire sul pulmino aziendale che fa la navetta tra l’azienda e il centro-città. E quando si fa l’esercitazione anti-incendio, loro non devono parteciparvi: non sono mica dipendenti regolari!

Guardate che non sto parlando di un caso particolare: ci sono interi settori, nel nostro Paese, che funzionano in questo modo: non solo quello editoriale, ma anche le case di cura, dove non si assume regolarmente un solo medico o infermiere, perché tutti sono “a partita Iva”, o “a progetto”, o “appaltati” a cooperative, o comunque ingaggiati in forme anomale per eludere gli standard di trattamento. E in tutti i settori oggi di fatto si possono assumere in questi modi magazzinieri, carpentieri, segretarie di ufficio, autisti, portieri, tecnici informatici e qualsiasi altra figura professionale.

Fòra dal let

"Il Presidente della Repubblica è stato a Quarto, da dove partì Garibaldi, poi in Sicilia, ma è venuto a Torino a dare la spinta decisiva perché si arrivi in tempo a celebrare l’Unità d’Italia. Da qui è partito tutto, da «questa terra di frontiera, dove fa freddo, si lavora, ci si alza presto la mattina, si va a letto presto la sera», come la definiva l’Avvocato Agnelli. Lo ha ricordato il sindaco Chiamparino, che al Presidente che gli chiedeva come stava ha risposto in dialetto, con asciuttezza e con il massimo dell’ottimismo che può esprimere un piemontese: «Son fòra dal let». Siamo fuori dal letto. Ancora una volta in piedi. Adesso comincia una nuova giornata, speriamo che sia un successo".

(Editoriale di Mario Calabresi su LaStampa di ieri).

domenica 6 giugno 2010

Il diritto al buono e al bello


Carlin Petrini intervistato da Pino Corrias su D di Repubblica (5 giugno 2010):

-Destra e sinistra non fanno più differenza?
"La fanno in generale, nelle scelte di fondo, e molto nelle chiacchiere. Forse un po' meno nella qualità dela vita quotidiana e materiale, che vuol dire zucchine non OGM, latte a chilometro zero, aria senza diossina. In quanto a me, io Carlin Petrini nato a Bra sono e mi dichiaro di sinistra, nipote del fondatore del Partito comunista in Piemonte nell'anno 1921, lettore di Gramsci, etc".

-Se è per questo, anche fondatore del Partito Democratico.
"Lo ammetto".

-Se n'è pentito?
"Le rispondo così: si, no, non lo so. Vedo un sacco di confusione, timidezze, occasioni clamorosamente perse. (...) Nel PD pensano di essere furbi, esibiscono Realacci contro il nucleare e Veronesi a favore, pensando in questo modo di soddisfare tutto il mercato politico. Ma accade il contrario, scontentano tutti.

-Parliamo del cambiamento.
"Intanto si devono capire le nuove sfide.Prenda i due secoli passati, prenda le grandi bandiere della sinistra: il suffragio universale, i diritti delle donne, i diritti dei lavoratori, la scuola pubblica. Oggi qual è la nuova bandiera universale nelle nostre democrazie?
Il diritto al buono e al bello."

-Ma vi accusano di badare al superfluo.
"Errore clamoroso. Cecità. Arretratezza culturale. Cattiva coscienza. (...)Non siamo più ai tempi di Tommaso d'Aquino, quando si fissava l'antinomia tra il necessario e il superfluo. Sono passati otto secoli. Il buono e il bello sono diventati diritti universali. Mangiare bene non vuol dire mangiare caviale, ma mangiare sano e pulito. (...)Di qui discende tutto il resto: l acura della buon agricoltura. La tutela delle risorse. La difesa del proprio paesaggio: le piazze, i campi coltivati, i campanili contro l'obbrobrio dei centri commerciali e delle periferie.


(La foto è di Stefano Mattia, autore di Everything I do is a Ballon, uno dei miei photoblog preferiti).

Domande del week end

La pagina delle domande di D magazine mi inquieta sempre.
Ieri:

-Avete già detto quello che volevate dire? Se ne sono accorti?
-Vi capita spesso di non sapere se chiedergli "sei solo stanco? Oppure c'è qualcosa che non va?" e poi di pentirvi perchè non siete state zitte?
-Ora che arriva l'estate, finisce tutto a paletta e secchiello?

sabato 5 giugno 2010

L'infermiera bona alla parata dei militari



Alla parata della Festa della Repubblica, un sentito omaggio del Premier al grande cinema italiano di Banfi, Bombolo e Tomas Milian.

Ieri, oggi...e domani?

"Corsi subito all'Università e vidi il suo corpo per terra, con il codice in mano, davanti all'aula dove stava per tenere lezione. Quell'immagine mi è sempre restata nella mente: la magistratura italiana ha il vanto, come diceva Sandro Pertini, di avere sconfitto il terrorismo con il codice, nelle aule giudiziarie, senza leggi speciali".

"Mai abbiamo compresso i diritti degli imputati. Uomini come Guido Galli ed Emilio Alessandrini sono caduti proprio per l'ossequio che prestavano alla legge, anche a costo della vita".

(Armando Spataro intervistato da Gianni Barbacetto su IlVenerdì di Repubblica di oggi 4 giugno 2010)


L'Anm ha proclamato ieri lo sciopero dei magistrati. Sebbene date e modalità dell'agitazione siano ancora da stabilire il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha espresso pubblicamente le sue critiche. Per il Guardasigilli lo sciopero è politico perchè con la loro decisione i magistrati si sottrarrebbero ai sacrifici chiesti al Paese. Qualche apertura è stata mostrata però nei confronti dei giovani che secondo i tagli andrebbero a perdere circa il 30% dello stipendio.

martedì 1 giugno 2010

Un orizzonte vero




Devo molto
A quelli che non amo

Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro
La gioia di non essere io
Il lupo dei loro agnelli

Mi sento in pace con loro
e in libertà con loro
e questo l'amore non può darlo
nè riesce a toglierlo

Non li aspetto
dalla porta alla finestra
Paziente
quasi come un orologio solare
capisco
ciò che l'amore non capisce
perdono
ciò che l'amore non perdonerebbe mai

Da un incontro a una lettera
Passa non un'eternità
Ma solo qualche giorno o settimana

I viaggi con loro vanno sempre bene
I concerti sono ascoltati fino in fondo
Le cattedrali visitate
I paesaggi nitidi

E quando ci separano
Sette monti e fiumi
Sono monti e fiumi
Che si trovano in ogni atlante

E' merito loro
Se vivo in tre dimensioni
In uno spazio non lirico e non retorico
Con un orizzonte vero, perchè mobile

Loro stessi non sanno
Quanto portano nelle mani vuote

"Non devo loro nulla"
Direbbe l'amore
Su questa questione aperta.

W.Szymborska

(la foto è mia, embè)

Esercizio: riconosca il candidato la prima pagina non manipolata de Il Giornale di oggi






(presa da Pazzo per Repubblica, da un'idea di Thomas Morton)

I have a question


La macelleria sociale è dove vendono il filetto a 12 euro/kg?

Noise from Amerika

Leggo un post tecnico molto interessante su Noise From Amerika, lo linko, sono di corsa, vabbè che scusa è.

Piccola storia ignobile

Michele Serra su La Repubblica di ieri:

Piccolo apologo sul Paese illegale

Piccola storia di strada - ignobile e istruttiva - come ne succedono tante. Utile per capire, al di fuori delle grandi catalogazioni teoriche, e dell'annoso dibattito politico-istituzionale sull'argomento, quanta distanza separi gli italiani dalla legge, e la legge dagli italiani. Riccione, viale Ceccarini, sabato sera. Quattro ragazzi sui diciotto anni mangiano una pizza in un ristorante e cercano di filarsela senza pagare il conto. Tre ce la fanno, uno viene bloccato dal personale del locale. Che lo gonfia di botte.

Davanti al ristorante si forma un capannello di curiosi. Lo struscio serale consente un fuori programma: il pestaggio di un cliente moroso. Il ragazzo piange, trema, è pieno di sangue, circondato da quattro o cinque giovani signori (del tipo antropologico: palestrato col codino) che gli stanno dando quella che a loro deve sembrare una lezione di vita. Tra i tanti che osservano la scena nessuno interviene. Per fortuna del ragazzo, passa in quel momento davanti al ristorante un gruppo di adulti che, nonostante sia coperto di sangue, lo riconoscono: è il compagno di scuola di un figlio. Intervengono, chiedono che cosa succede, vengono rudemente invitati dal gestore a non impicciarsi, qualche spintone, qualche insulto cerca di dissuaderli. Per fortuna si impicciano, soccorrono il ragazzo, si informano sull'accaduto. Chiedono al gestore perché, invece di pestare a sangue il ragazzo, non abbia chiamato i carabinieri. "I carabinieri non gli fanno niente, noi almeno gli abbiamo dato quello che si meritava".

Gli adulti, nel tentativo di riportare la calma e impedire conseguenze più gravi per il ragazzo, pagano il conto (sessanta euro). Dettaglio quasi esilarante, niente ricevuta fiscale: in compenso il ragazzo riceve un ultimo ceffone da parte del più agitato dei suoi improvvisati secondini. I soccorritori, che descrivono un clima di violenza isterica, fuori controllo, riescono in qualche modo a portare fuori il ragazzo, non senza essersi fatti restituire il suo cellulare, sequestrato. Lo portano a una fontana, gli lavano il sangue, gli tamponano le ferite, lo convincono di telefonare al padre, gli suggeriscono di fare denuncia. Il padre verrà a riprenderlo. Denuncia non verrà fatta.


Il ragazzo l'ho sentito il giorno dopo. Mogio, confuso, forse conscio di avere fatto una fesseria (non pagare il conto non è una divertente bravata da movida, è un reato), sicuramente non conscio di essere stato vittima di un reato molto più grave, sequestrato, pestato, "punito" al di fuori di qualunque legge, compresa quella del buon senso. Ma chi ignora i propri doveri ignora anche i propri diritti. Di qui in poi, quel ragazzo penserà che il più grosso, o quello che corre più veloce, o il meglio accompagnato (in gruppo si mena meglio) ha sempre ragione.

La morale non è neanche una morale: è il desolato computo di una somma di comportamenti totalmente fuori dalle righe e fuori dalla legge. Nel clima eccitato della movida, non pagare il conto deve sembrare una bravata spiritosa: invece è un reato. I reati andrebbero denunciati (oppure, se si ha cervello, sanati con una mediazione privata: ragazzino, dì a tuo padre di venire subito qui a pagare il conto oppure ti denunciamo). Spaccare la faccia a un ragazzino isolato e indifeso è una porcheria in termini umani, e un reato ben più pesante che cercare di andarsene senza pagare quattro pizze. Ciliegina sulla torta, il conto incassato senza ombra di ricevuta: costume nazionale, è noto, ma che al termine di un episodio del genere suona come piccolo sfregio conclusivo. La stecca finale di un concertino disastroso.

Neanche l'ombra della legge, in tutto questo: e non in Aspromonte, ma in viale Ceccarini. Nella mezz'ora di parapiglia non si è visto un poliziotto o un vigile che cercasse di riportare l'ordine e la ragione: ma questo può essere solo uno sfortunato caso, essendo impensabile che nel cuore della più vivace e popolosa delle "movide" romagnole, con tutto l'alcol (e il resto) che gira, non sia previsto qualche presidio delle forze dell'ordine. Ma il peggio è che a nessuno dei protagonisti è balenato il sospetto che per stabilire le ragioni e i torti, per punire, per risarcire i danni, ogni via fuori dalla legge è fuorilegge. Debole o forte che sia, opaca o chiarificatrice, la legge esiste apposta per evitare che un cliente moroso possa farla franca, e che un ristoratore manesco rischi di provocargli lesioni permanenti, o peggio, per sessanta euro. E per giunta non tassati.
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