sabato 31 luglio 2010

Cravatte fini


Da una sommaria analisi del foto album di Repubblica sul divorzio Fini-Berlusconi, emerge che mentre il premier inossidabile da vent'anni si veste sempre alla stessa maniera, da padrùn, l'aspirante ha sempre faticato un poco nello scegliersi le cravatte.

Ci sarebbe da ragionarci.
(D'altra parte se voi vedeste il costume che ho addosso io ora...)

L'analfabeta politico



Il peggiore analfabeta
è l’analfabeta politico.
Lui non ascolta, non parla
né partecipa agli avvenimenti politici.

Non sa che il costo della vita,
il prezzo dei fagioli, del pesce,
della farina, dell’affitto, delle scarpe
e delle medicine
dipendono dalle decisioni politiche.

Un analfabeta politico è tanto asino
che si inorgoglisce e gonfia il petto
nel dire che odia la politica.

Non sa l’imbecille che
dalla sua ignoranza politica proviene
la prostituta, il minore abbandonato,
il rapinatore ed il peggiore di tutti i banditi,
che è il politico disonesto, ingannatore e corrotto,
leccapiedi delle imprese nazionali. (B. Brecht)


(la foto è di René Maltête e l'ho rubata a Malvino, che ringrazio)

mercoledì 28 luglio 2010

L'è mei 'n stupid che dès furb


Non ho la macchina fotografica, cercherò di provvedere a documentare il fatto domani, però voglio intanto segnalare che entrando in Torino, in Corso Giulio Cesare, c'è un bel manifesto della campagna Be Stupid di Diesel, declinato in salsa leghista, che recita "L'è mei 'n stupid che dès furb" ("Meglio uno stupido che dieci furbi").

Bene.
Penso che il fatto sia assolutamente casuale, ma la comparsa del manifesto coincide con la decisione del Tar di far verificare ricontando scheda per scheda quanti voti erano esplicitamente destinati a Cota nelle schede delle liste illegittimamente ammesse alle regionali (decisione del 15 luglio scorso), e con la ricusazione del ricorso (notizia di ieri).

Poichè le dichiarazioni di Cota e del PdL sono sempre sembrate caratterizzate da sufficienza nei confronti delle regole, mi sento di dire che l'è mei 'n stupid che dès furb, Presidente.

martedì 20 luglio 2010

Il nulla che ti insegue


Oggi La Stampa pubblica una lunga intervista di Francesco Bonami a Maurizio Cattelan.
La riporto tutta, è molto bella.

Cattelan, paura d'essere risucchiato dallo scarico della lavatrice
di Francesco Bonami

NEW YORK
E' difficile da credere che il Pierino dell'arte contemporanea, l'erede della merda d'artista, il guerrigliero delle arti visive ma anche l'artista nato povero ma non dell'Arte Povera diventato l'Italiano più caro al mondo, insomma avete capito, «lui», Maurizio Cattelan, stia per superare il mezzo secolo di vita. Come ci si sente a 50 anni? «Uguali, direi. Ma più che celebrare i 50 anni, celebro 20 anni di permanenza nello stesso mestiere, l'artista: tutti i lavori che ho fatto prima al massimo sono durati un paio di anni». In effetti Cattelan è rimasto uguale a quando c'incontravamo nel 1993 nello stesso ristorante giapponese, Shima, nell'East Village di New York dove abbiamo fatto questa intervista. Sembra geneticamente disegnato per essere un personaggio eterno da fumetti. Stesso peso, qualche capello grigio in più e anziché abiti sgraffignati oggi indossa T-shirt autoprodotte griffate Cattelan. Unica differenza: 17 anni fa anche se con fatica chi pagava il conto del ristorante ero io, mentre oggi è lui.

Come ci si sente a essere ricchi? «Ricco per me vuol dire riuscire a poter fare i miei lavori senza dipendere da nessuno, riuscire a realizzare le mie idee, dalle sculture alle riviste come Permanent Food o Toilet Paper, fresca fresca di stampa». Ma quando hai capito che con l'arte potevi davvero viverci? «Fino al 1997 qui a New York il mio budget giornaliero era di 5 dollari. Poi un gallerista dove avevo fatto un mostra mise all'asta una mia opera, gli “spermini”, le mascherine di lattice con la mia faccia che furono battuti se non sbaglio per 150 mila dollari, lui li aveva pagati credo 10 mila». Contento? «Da una parte sì, ma da un'altra trovavo assurdo che mentre io ero costretto a pane e caffelatte perché non potevo comprarmi un cornetto, c'era uno che in pochissimo tempo aveva guadagnato 15 volte quello che aveva investito».

Oggi le cose sono leggermente cambiate, le opere di Cattelan non sono così facili da avere e costano svariati milioni alle aste e sul mercato privato. Quel gallerista sarebbe stato più furbo a tenerseli gli spermini. «Inutile piangere sul latte versato».

Così senza lacrime il 21 settembre Cattelan, che è nato sotto il segno della Vergine, spegnerà 50 candeline. Il giorno dopo festeggerà San Maurizio e il 24 settembre inaugurerà la sua nuova scultura in piazza degli Affari, a Milano, Omnia Munda Mundi, titolo preso in prestito da San Paolo: Per i puri tutto è puro. Si tratta di un'enorme mano di marmo alla quale sono state segate tutte le dita escluso il dito medio che svetta nel cielo mandando al diavolo un po' tutti. Questo monumento, che piacerebbe tanto a Beppe Grillo, ha creato non pochi problemi al sindaco Letizia Moratti e al suo assessore alla Cultura Massimiliano Finazzer Flory. Ma Milano conosce bene il gioco di Cattelan sempre al limite del cartellino rosso. Nel 2004 la Fondazione Trussardi presentò i suoi tre bambini impiccati a un albero e l'opera fece il giro delle prime pagine di tutti i quotidiani.

Il monumento al «vaffanculismo» il giro dei quotidiani lo ha già fatto prima ancora che venisse realizzato, così come ha destato non poche polemiche l'ipotesi di sostituire un monumento a Mazzini durante la Biennale di Scultura di Carrara con una statua di Bettino Craxi. In questo caso l'operazione non è riuscita e Cattelan si è accontentato di mettere un cenotafio con l'effigie del leader socialista al cimitero, vicino alle tombe dei dispersi in guerra.

Quando pensi a un lavoro vuoi sempre provocare? «Assolutamente no. M'interessa che l'opera e l'arte facciano comunicazione, dicano qualcosa a cui magari la gente pensa ma non lo dice apertamente. O se lo dice non lo mostrerebbe mai con un'immagine. L'immagine esprime sempre di più delle parole: è più semplice, chiara, efficace, lascia pochi dubbi». Qualche dubbio sulla qualità di certi tuoi lavori tu però li hai? «Certo. Ci sono lavori che funzionano come opere e altri, per esempio i bambini appesi all'albero, una volta mostrati in un contesto molto preciso non funzionano più». Tu fai poche mostre in gallerie private. L'ultima è stata a New York da Marian Goodman nel 2001 con i due poliziotti capovolti. «Ecco un lavoro sul quale ancora oggi ho qualche dubbio. Sì, preferisco lavorare in luoghi pubblici più che nelle gallerie. Il lavoro deve circolare nella testa delle persone, fuori anche dal mondo ristretto dell'arte».

Di cosa hai paura? «Di essere dimenticato. Una paura che mi porto dietro dalla nascita. I miei genitori volevano tanto una femmina che quando nacqui si dimenticarono di registrarmi all'anagrafe, glielo ricordarono dai carabinieri». Paura di tornare un povero artista? «Vedi, io sono nato in una famiglia indigente. Ci facevamo il bagno in una tinozza con l'acqua calda dello scarico della lavatrice. Sono uno di quelli di cui si dice che 'si è fatto dal nulla'. Ma quando arrivi dal nulla questo 'nulla' t'insegue come un fantasma. Non importa quanti soldi uno faccia. Il terrore che questo nulla a un certo punto riesca a riprenderti è eterno. Non è paura di tornare povero, ma paura di essere risucchiato dentro lo scarico della lavatrice». Eppure sei stato proprio tu a iniziare la tua carriera d'artista scomparendo. Una delle tue prime opere furono delle lenzuola annodate a mo' di evasione con le quali ti calasti dalla finestra di un castello dove avresti dovuto partecipare a una mostra di gruppo. Addirittura alla tua prima mostra in una galleria di Bologna, la Neon, nel 1989, non sapendo cosa fare attaccasti al muro un cartello con scritto «Torno Subito». «Sì, però quando poi ho deciso di tornare non sono più andato via».


(La foto è mia, Cattelan alla Tate Modern)

L'università telematica (un post ai miei tempi era tutta campagna)

Vorrei che un giornale, uno solo, invece di dare spazio alle solite battute del sire vorrei-ma-non-posso* su Rosi Bindi, sulle giovani fiche, sulla laurea di Di Pietro e su quanto è bravo bello e intelligente, vorrei che un solo giornale mi raccontasse per bene che cos'è, come nasce, come funziona, chi è il proprietario e come ti forma l'università telematica di Novedrate.

L'università
Telematica
di
Novedrate



L'università
Telematica
di
Novedrate


L'università
Telematica
di
Novedrate


Dove ti sei laureato?
All'Università Telematica di Novedrate!

Sono in loop, scusate.
L'università Telematica di Novedrate.

(*sul tema, oggi ha già detto tutto e bene Galatea, leggetela: La bruttezza di Rosy e il bel mondo di Silvio)

Se non ti stanchi, amami


Ho ritrovato una pagina strappata mesi fa da un Io Donna e ripiegata nella tasca dei jeans e poi da lì nel beauty case, è un articolo di Paolo di Stefano sulla storia d'amore lunga una vita tra Mario Tobino e Paola Olivetti. Ora sa di sapone.

"Cara Paola, mi è rimasto il tuo volto pallido il tuo grande cuore. Se non ti stanchi, amami. Sono arrivato ora. Spero di ritornare presto e di restare una settimana. Parto triste in bicicletta per Viareggio. Ho molti ricordi di Firenze. Ho una malinconia felice. Mario." (31/3/1944)

"Tu che perdoni tutto di me perdona anche questa altalena; viemmi a trovare anche se il viaggio è triste, premuroso, ignoto. Vieni ancora comunque. Vieni che veda il tuo volto pallido, con le ciglia bianche, la bocca sottile che sorride leggera! Tutta stanotte ti ho sognata, ti svolgevi leggera di colori diafani che dal rosa si fanno definitivamente celesti. Se mi scrivi mi fai piacere. Se non mi scrivi rimango lo stesso. Ma scrivimi. Ricordati di me. (...) Ciò che guardo abbraccio. Mario." 1/4/1944)

La foto è mia.
Un po' del resto della storia qui.

lunedì 19 luglio 2010

Chi non ha paura di morire muore una volta sola



Paolo Borsellino
Agostino Catalano
Emanuela Loi
Vincenzo Li Muli
Walter Eddie Cosina
Claudio Traina

Palermo, 19 luglio 1992

I come Ira di Dio


Potete provare a scardinare il bunker.
La tattica, il modulo, il sistema funzionano anche in versione offensiva.
Abbandonare il catenaccio.
Possesso palla perfetto, ma voi non siete una palla.
Non siete per nulla impressionati.
Riuscite a rompere l’equilibrio e la monotonia.
Scaraventate il bolide a giro.
Imprendibile.
Di colpo.
I vostri fan vi fanno il monumento.
Non pagate la presunzione.
Agite anche in contropiede.
Folate veloci.
Piedi dolci ma anche ruvidi, se necessario.
Rimpalli in mischie da cui uscire a testa alta.
Anche la fortuna del tocco beffardo.
Chi vi guarda negli occhi vede un’iradiddio.

Ditemi se non sembra uno stralcio vergato da un Douglas Coupland in crisi mistica, e invece è solo l'oroscopo del mio segno secondo D di Repubblica di questa settimana.
Ora sono tutti cavoli vostri!

No, la risposta (porcoggiuda) è NO.



“Anche quest’estate vi fermerete almeno una notte a guardare il Grande Carro, con qualcuno di fianco a cui volete bene, e che non riesce a trovarlo, a cui cercherete pazientemente d’indicarlo e la sua incapacità non farà altro che far aumentare il vostro amore?”
(A volte la rubrica delle “domande” di D di Repubblica è stressante).
Foto rubata qui.

giovedì 15 luglio 2010

Matto, generoso, strapopolare


Così Gian Paolo Ormezzano su La Stampa definiva ieri, in morte di Nino De Filippis, il ciclismo dell'epoca.

Fa impressione leggerlo con il Tour di oggi sullo sfondo, e se qualcuno conosce la voce calda di Ormezzano, che qui parla di un amico, ne fa ancora di più.

"Uno di quegli articoli che non si vorrebbe mai scrivere, tanto sono insieme inevitabili, assurdi, balordi, duri: è in morte, per il male che si sa, del ciclista e amico Nino Defilippis detto il Cit, «il piccolino» in piemontese, uno che era nato campione come un altro nasce cinese.

(...)

Era un ciclismo matto, generoso, strapopolare. Il suo. Nel 1956 il Tour arrivava, per la prima volta, a Torino: il Cit andò in fuga con altri di media classifica, vinse la volata allo stadio Comunale, su terra battuta, «soffiato» davanti a tutti dal ruggito/rantolo amoroso di sessantamila persone richiamate dalle radio. Un amico di Coppi, Pino Villa, aveva comprato al buio l'incasso, a un certo punto gli mancarono i biglietti, aprì i cancelli, la notte dormì in un albergo davanti alla stazione con tanti ma tanti soldi sotto il letto, il mattino tornò alla sua Novi Ligure e si comprò un paio di appartamenti. Alle redazioni dei giornali torinesi il padre del Cit spedì casse di agnolotti, quelli dell'industria di famiglia che in questi ultimi anni Nino aveva riproposto alla grande".

Defilippis, il torinese che "sgridava" Coppi e poi lo aiutava a vincere
La Stampa, 14 luglio 2010

Segnalazioni dall'utente (un post sessista)



Nella settimana in cui la cronaca ci ricorda che ad essere femmine si rischiano un sacco di cose, dalla morte violenta e prematura a scenari di trista mignottaggine, fortunatamente arriva Alessandro Sallusti a ricordarci qual'è la vera forma di potere femminile: l'influenza post coitum su un maschio di potere, come riporta Daniele Sensi a proposito di un commento in radio sugli usi mattutini della coppia Fini/Tulliani:

"E' un uomo di oltre sessant'anni che ha sposato una donna giovane, la quale probabilmente ogni mattina gli dice: "Ma dai, Gianfranco, tu non devi farti mettere i piedi in testa da Berlusconi... tu sei più bravo, tu sei più bello, tu sei più forte"(Alessandro Sallusti su Gianfranco Fini a Radio Padania).

A tale proposito segnalo a Sallusti, dal mio modesto punto di vista di femmina media, che ad essere più bravi e più belli di Berlusconi non è che ci voglia poi molto. E per quel che ne sappiamo almeno Fini non ha bisogno di pagare una donna per sentirselo dire.


(In ogni caso ho controllato, Fini è nato il 3 gennaio 1952, tecnicamente non è un sessantenne, ed è un Capricorno)

(Questo post usufruisce del fondamentale contributo de LaNico, ma siccome essa parte per il Messico e io sono invidiosa, cicca cicca la cito in ritardo).

Salvare capra e (testa di) cavolo


E così tra afa e bei concerti a Torino sono passati questi quindici giorni, e oggi di nuovo ci troviamo ad aspettare la sentenza del Tar sul caso Cota.

Su La Stampa/Torino leggo che "tra le ipotesi sembra trovare una certa condivisione bipartisan, anche se nessuno è disposto a dirlo pubblicamente, l’ipotesi di una sentenza compromissoria che, facendo decadere una o più liste irregolari, faccia salvi i voti dati al presidente Cota. Una speranza “politica” che, riconoscendo un giustificato motivo nei ricorsi delle liste di centrosinistra, permetterebbe di non andare al voto (con i conseguenti costi di una campagna elettorale che non tutti sarebbero disposti a sostenere)".

Dunque si salveranno così capra e cavoli, in nome di una presunta "volontà popolare" che su tutto ha il diritto di prevalere, anche -appunto- sul diritto?

La sentenza è attesa nel tardo pomeriggio di oggi.

Nel frattempo, si può rileggere il commento di Luigi La Spina (La Stampa, 2 luglio 2010), ne La strettoia che attende i giudici:

'Una citazione di un grande giurista liberale, Piero Calamandrei, potrebbe aiutare a riflettere: «Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici è il pericolo dell’assuefazione, dell’irresponsabilità anonima... non sappiamo che farcene dei giudici di Montesquieu, esseri inanimati, fatti di pura logica. Vogliamo giudici con l’anima, giudici engagés, che sappiano portare, con vigile impegno umano, il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia».'

mercoledì 14 luglio 2010

Tra chi ti dice scegli: o troia o sposa


Oggi su Repubblica un fondo di Michela Marzano che dice, con la consueta chiarezza e abilità di sintesi, tutto quello che c'è da dire su questa ondata di sangue di donna che ci si sparge intorno.
Lo riporto, via Lipperini:

"Si continua a chiamarli delitti passionali. Perché il movente sarebbe l’amore. Quello che non tollera incertezze e faglie. Quello che è esclusivo ed unico. Quello che spinge l’assassino ad uccidere la moglie o la compagna proprio perché la ama. Come dice Don José nell’opera di Bizet prima di uccidere l’amante: “Sono io che ho ucciso la mia amata Carmen”. Ma cosa resta dell’amore quando la vittima non è altro che un oggetto di possesso e di gelosia? Che ruolo occupa la donna all’interno di una relazione malata e ossessiva che la priva di ogni autonomia e libertà?

Per secoli, il “dispotismo domestico”, come lo chiamava nel XIX secolo il filosofo inglese John Stuart Mill, è stato giustificato nel nome della superiorità maschile. Dotate di una natura irrazionale, “uterina”, e utili solo - o principalmente - alla procreazione e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare quello che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi al volere del pater familias. Sprovviste di autonomia morale, erano costrette ad incarnare tutta una serie di “virtù femminili” come l’obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano preservarsi per il legittimo sposo. Fino alla rinuncia definitiva. Al disinteresse, in sostanza, per il proprio destino. A meno di non accettare la messa al bando dalla società. Essere considerate delle donne di malaffare. E, in casi estremi, subire la morte come punizione.

Le battaglie femministe del secolo scorso avrebbero dovuto far uscire le donne da questa terribile impasse e sbriciolare definitivamente la divisione tra “donne per bene” e “donne di malaffare”. In nome della parità uomo/donna, le donne hanno lottato duramente per rivendicare la possibilità di essere al tempo stesso mogli, madri e amanti. Come diceva uno slogan del 1968: “Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!”. Ma i rapporti tra gli uomini e le donne sono veramente cambiati? Perché i delitti passionali continuano ad essere considerati dei “delitti a parte”? Come è possibile che le violenze contro le donne aumentino e siano ormai trasversali a tutti gli ambiti sociali?

Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all’uomo, tanto più l’uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende volgare, aggressivo, violento. Grazie ad alcune inchieste sociologiche, oggi sappiamo che la violenza contro le donne non è più solo l’unico modo in cui può esprimersi un pazzo, un mostro, un malato; un uomo che proviene necessariamente da un milieu sociale povero e incolto. L’uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Poco importa il lavoro che fa o la posizione sociale che occupa. Si tratta di uomini che non accettano l’autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al proprio volere. Talvolta sono insicuri e hanno poca fiducia in se stessi, ma, invece di cercare di capire cosa esattamente non vada bene nella propria vita, accusano le donne e le considerano responsabili dei propri fallimenti. Progressivamente, trasformano la vita della donna in un incubo. E, quando la donna cerca di rifarsi la vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, talvolta l’uccidono.

Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del “declino dell’impero patriarcale”. Come se la violenza fosse l’unico modo per sventare la minaccia della perdita. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso. Ma quando la persona che si ama non è altro che un oggetto, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l’amore si dissolve e sparisce. Certo, quando si ama, si dipende in parte dall’altra persona. Ma la dipendenza non esclude mai l’autonomia. Al contrario, talvolta è proprio quando si è consapevoli del valore che ha per se stessi un’altra persona che si può capire meglio chi si è e ciò che si vuole. Come scrive Hannah Arendt in una lettera al marito, l’amore permette di rendersi conto che, da soli, si è profondamente incompleti e che è solo quando si è accanto ad un’altra persona che si ha la forza di esplorare zone sconosciute del proprio essere. Ma, per amare, bisogna anche essere pronti a rinunciare a qualcosa. L’altro non è a nostra completa disposizione. L’altro fa resistenza di fronte al nostro tentativo di trattarlo come una semplice “cosa”. È tutto questo che dimenticano, non sanno, o non vogliono sapere gli uomini che uccidono per amore. E che pensano di salvaguardare la propria virilità negando all’altro la possibilità di esistere".

(Michela Marzano, Perchè gli uomini uccidono le donne, La Repubblica 14 luglio 2010)
(La foto è di Gerda Taro)

-Sul tema ho apprezzato molto anche le parole di Galatea nel suo post di oggi, "Cretine o morte. L’amore ai tempi delle donne che non ci vogliono stare".

domenica 11 luglio 2010

Un eroe borghese



Il testamento di Giorgio Ambrosoli, caduto 31 anni fa, in ua storia terribilmente attuale che fa rabbrividire, in un disgraziato paese sempre più bisognoso di eroi.

"E’ indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il paese.

Ricordi i giorni dell'Umi (Unione Monarchica Italiana n.d.r.) , le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l'incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato - ne ho la piena coscienza - solo nell'interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo.

I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [... ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa.

Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell'altro [... ]

Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi".

sabato 10 luglio 2010

Istantanea di un amore


Sono in montagna da mamma, piena di febbre, raffreddata a morte, ma mi godo il fresco e i giornali vecchi (si lo so, fa tanto Paperon de Paperoni che raccatta i giornali usati al parco, e per questo mi piace ancora di più).

E così scopro da La Stampa di domenica 4 luglio, raccontata da Mario Baudino, la storia dolcissima di Gerda Taro "la donna che creò Robert Capa".

"Gerda Taro lasciò Stoccarda nel 1934, pare dopo avere letto un romanzo di Dos Passos, 1919, e andò a Parigi. (...) Aveva 24 anni, era bellissima e stava cercando nuovi orizzonti. Ancora non sapeva che sarebbe diventata una grande fotografa di guerra, perchè il mestiere glielo insegnò di lì a poco un ebreo ungherese incontrato per caso in Francia, e subito amato di intensissima passione. Si chiamava André Friedman. Lei gli dette un altro nome e in parte anche una nuova identità. Creò Robert Capa (...).

I due giovani innamorati lasciarono Parigi e andarono alla guerra (la guerra civile in Spagna). Gerda poi morì da soldato, travolta dalla manovra errata di un carro armato. Dopo la morte si dubitò persino che fosse stataa davvero una fotografa, si attribuirono al marito le non molte immagini rimaste fra quelle scattate da lei, la si confinò nel perimetro nebuloso di un'incerta leggenda. (...) Solo in tempi molto recenti è finalmente riaffiorata grazie alla scoperta a Città del Messico di tre vecchie valigie colme di negativi. Erano l'archivio spagnolo di Capa, abbandonato a Parigi quando arrivarono i nazisti, e dato per disperso. C'erano tutte le immagini del grande fotografo, e anche quelle di Gerda: c'era la storia di una breve, esaltante stagione.

Una di queste, un ritratto di lei distesa sul letto con addosso il pigiama di Robert, ha rappresentato anche la scintilla che ha fatto nascere il romanzo-documento di Susana Fortes: 'Quando l'ho vista, spiega, ho capito che avevo in mano una storia. Era una foto privata, quella che un uomo innamorato scatta alla sua donna'. Era una storia che raccontava da sola tre anni di vita insieme,e vent'anni successivi di rimpianto".

-Sul tema (grazie a Sandro P.) ho trovato anche un bell'articolo con foto del British Journal of Photography.

mercoledì 7 luglio 2010

Era l'estate del 2010...


Era a Cortina d'Ampezzo, era la prima settimana di un luglio caldo, Feltri sputtanava Fini, Fini boccheggiava su dichiarazioni di buon senso istituzionale che all'improvviso avevano il sapore della fantascienza, un certo Frattini dichiarava che Berlusconi no, non si sarebbe strappato i capelli in caso di rottura (ettecredo, con quel che gli sono costati!), Casini flebilmente tuonava che no, lui in lista con la d'Addario mai (con i mafiosi però sì, boh), il pane veniva via a 5,80 al chilo alla cooperativa, insomma, erano le vacanze sotto Berlusconi.

Una buona parola per tutti

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