giovedì 6 maggio 2010

Questo non è esilio, è abisso

Umberto Galimberti su D di Repubblica, 1 maggio 2010



(...) E' risuonata in me una delle metafore più potenti della condizione umana. Non quella del “pellegrino” che si dirige verso una meta, che la nostra cultura cristiana indica nella vita eterna o nella salvezza, ma quella dello “straniero” che proviene da un altro luogo, e a quelli del luogo appare “strano”, non familiare, incomprensibile.

Allo stesso modo il luogo che lo straniero si trova ad abitare è per lui estraneo e
perciò carico di solitudine. Angoscia e nostalgia della terra che ha lasciato sono parte del destino dello straniero che, non conoscendo le strade del paese estraneo, girovaga sperduto. Se poi impara a conoscerle troppo bene, allora dimentica di essere
straniero e si perde in un senso più radicale, perché, soccombendo alla familiarità di quel mondo non suo, diventa estraneo alla propria origine.

Nell’alienazione da sé l’angoscia sparisce, ma incomincia la tragedia dello straniero
che, dimenticando la sua estraneità, dimentica anche la sua identità. Tutto ciò appartiene alla sofferenza dello straniero, ma anche alla sua eccellenza, perché la sua estraneità gli vieta di confondersi con gli altri e di disertare quella vita segreta, sconosciuta all’ambiente circostante e ad esso impermeabile, perché incomprensibile. Entrambi gli aspetti dello straniero: l’“estraneità” e la "superiorità”, la sofferenza e la differenza fanno di lui un essere che abita il mondo senza esserne coinvolto, richiamato da un al di là che disabita, che lei chiama "paradiso” e io più semplicemente “congedo dalla terra”, indifferente alla vicenda umana.

Per capire questo desolato girovagare di pensieri può esserci d’aiuto Pascal con quel suo frammento (264) che esalta la dignità dell’uomo: "L’uomo è solo una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. E anche quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire, mentre l’universo non ne sa nulla". (...)

L’indifferenza della terra, la sua estraneità all’evento umano che ospita a sua insaputa e a cui invia solo un messaggio di solitudine, è ben più radicale della
solitudine con cui gli uomini circondano i loro simili. A questo punto le concedo l’“indigenza” della condizione umana, non la sua “indecenza”.

Una parola, questa, che nasconde una certa rabbia per una vuota promessa che un tempo devono averle fatto circa il senso della vita.

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts with Thumbnails